Contemporaneo e gia storicizzato, Andre Lelario è presente i collezioni importanti come gli Uffizi di Firenze e la Galleria Nazionale di Arte Moderna e Contemporanea di Roma. Oggi in partenza per una grande mostra in China, Lelario è in queste settimane protagonista di una nuova iniziativa. La storica galleria La Nuvola di Roma, guidata dalla giovanissima e preparatissima Alice Falsaperla, ha aperto le porte e dato una casa all’archivio dell’artista. Per chi non lo conoscesse, Lelario è un fine incisore, un uomo riservato, un docente all’Accademia e apprezzato intellettuale della capitale. Lo si trova spesso disegnare nei giardini di Galleria Boghese mentre ascolta musica e cantautori dalle tinte blu. Sorriso composto, capello brizzolato, uno sguardo curioso da ragazzo e una mano ferma come quella di un neurochirurgo gli consentono di portare avanti un lavoro che lascia senza fiato.
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Andrea Lelario costruisce il proprio lavoro dentro una tensione continua: quella tra il segno e ciò che il segno vorrebbe diventare. Le sue opere nascono da un conflitto aperto tra ritmo e simbolo, tra la spinta quasi istintiva a “dire qualcosa” e la consapevolezza che il segno, prima di tutto, è ciò che è.
Nel dialogo con la gallerista, Alice Falsaperla, emerge il concetto di ripetizione come linguaggio e non decorazione: un’affermazione ostinata dell’identità dell’artist. In questo processo, che richiama per certi versi la ridondanza semantica di Gertrude Stein, il significato non viene imposto ma evocato. Il vuoto resta, ed è proprio lì che il fruitore è chiamato a intervenire, riempiendolo con un contenuto emotivo personale.
“Il punto di partenza del lavoro di Lelario è il taccuino. È uno spazio primario, quasi intimo, dove l’artista annota visioni figurative che appaiono ermetiche nelle proporzioni ma pronte a espandersi, a debordare oltre i margini” continua la gallerista. “Da qui prende forma il disegno: penna micron 0,3 su cartoncino, incisioni, fotoincisioni, fino a grafiti che sfuggono deliberatamente alla misura. Il gesto è controllato ma mai rigido, leggero e allo stesso tempo vorticoso, come se il segno seguisse una logica interna più che una struttura prestabilita”.

Questa tecnica genera una rete sottile di inquietudine, un tessuto visivo che interroga lo sguardo senza mai offrirsi come risposta definitiva. L’esotismo, in Lelario, non è geografico ma mentale: è l’urgenza di fissare flussi di coscienza, partendo da dettagli minimi incastonati in vegetazioni fitte, in spazi che ricordano luoghi amniotici. Non si tratta di paesaggi esterni, ma di un intrico interiore, neutro, quasi incolore, fatto di indizi, stratificazioni, protezioni. Un sistema difensivo nei confronti del mondo e della memoria.
Il percorso che ne deriva è segnato da una costante oscillazione tra opposti: leggerezza e abisso, due poli che convivono e restituiscono profondità al pensiero. La natura evocata da Lelario non è mai descrittiva: è una natura che supera se stessa, che si trasforma in allegoria, che genera nuove possibilità di lettura.
Le citazioni iconografiche emergono come interruzioni colte, veri e propri scarti di senso. Qui si intrecciano gli studi junghiani e l’immaginario del Grand Tour, in un dialogo continuo tra viaggio e enigma. Il viaggio diventa rebus, strumento simbolico per esplorare l’inconscio e le sue apparizioni. Si ha la sensazione di entrare in un sistema che mette in relazione le reti universali con quelle neuronali, tracciando mappe archetipiche in continua mutazione.
Alcune opere appaiono come fossili della memoria, frammenti di un’antichità destinata a restare. Altre guardano apertamente a Dürer e al mito, interrogando anatomie, credenze, strutture simboliche. In ogni caso, l’obiettivo resta lo stesso: accompagnare chi guarda dentro la selva della propria coscienza, dove, tra ombre e densità, affiorano improvvisi bagliori di armonie nascoste.