È disponibile su Netflix ‘Mrs Playmen’, serie in cui Giuseppe Maggio interpreta un fotografo audace e ambizioso alla fine degli Anni Sessanta. L’intervista.
L’Italia che si affaccia al cambiamento, che inizia a parlare di emancipazione, desiderio e libertà in un Paese ancora bloccato da leggi e costumi arcaici. È quella che rivive in Mrs Playmen, nuova serie Netflix firmata da Riccardo Donna e ispirata alla vera storia di Adelina Tattilo, fondatrice della prima grande rivista erotica italiana. Nei sette episodi, si costruisce il ritratto di una donna coraggiosa, ma anche il racconto di un intero Paese che cambia pelle.
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Tattilo, interpretata da Carolina Crescentini, rompe infatti schemi di una società bigotta e maschilista, creando uno spazio in cui l’erotismo diventa linguaggio artistico. E il corpo si trasforma in messaggio politico mentre la libertà femminile comincia a prendere forma. Tra realtà e finzione, a scorrere sullo schermo sono vicende singole e corali insieme, in un periodo fatto di luci e ombre.
Tra i protagonisti della serie c’è Luigi Poggi, interpretato da Giuseppe Maggio. Fotografo che incarna il fascino ambiguo dell’epoca: bello, intelligente, ambizioso, un po’ angelo e un po’ demone. Non è un intellettuale, ma vive di immagini, di istinti, di sguardi. Arriva a Roma da provinciale, deciso a conquistare la capitale della Dolce Vita in cerca di successo e denaro. Ma dentro le mura di Playmen troverà qualcosa di diverso: un luogo dove l’arte, l’eros e la libertà personale si fondono in un’unica tensione creativa.

Quali sono stati gli aspetti umani sui quali hai iniziato a lavorare per definire/fare tuo il personaggio?
«È un personaggio molto ambizioso, sicuramente. Un uomo che parte da una situazione non di agio e che vuole cambiare la propria condizione. Quindi c’è un senso di rivalsa nei confronti della vita e di ciò che lui ha ricevuto dalla vita. Sono partito proprio da questo: dal desiderio di cambiare le cose, di essere padrone del proprio destino. Questo, nella serie, lo porta ad avere a volte degli atteggiamenti amorali, a mettere da parte i comportamenti corretti pur di raggiungere il suo obiettivo. La cosa bella, però, è che lui non è amorale: semplicemente si comporta così perché forse dalla vita ha ricevuto questo, ha visto questo. In fondo, spesso siamo il riflesso di ciò che vediamo.
La maturità del personaggio sta proprio nel capire che esiste anche un’altra strada per ottenere ciò che si vuole, che non è necessario scendere a compromessi o superare determinati limiti. E questa consapevolezza in lui cresce, si alimenta anche grazie all’esempio di Adelina Tattilo, perché vede in lei una donna forte, una donna che cambia le carte in tavola. Le rimescola, le ridistribuisce, perché non accetta una realtà prestabilita.
Sono partito quindi da questo, ma anche dalle sensazioni che certi comportamenti e certe azioni lasciano in lui. Un accumulo, strato dopo strato, che però gli crea un malessere, un senso di vuoto, quasi di sporcizia. In Poggi c’è un conflitto interiore molto forte».
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Rispetto invece al contesto sociale, che in qualche modo è un coprotagonista della vicenda: che figura rappresenta il tuo personaggio e qual è la sua cifra artistica?
«Nasce come assistente fotografo all’interno di Playmen e, grazie ad Adelina, diventa il fotografo della rivista. La sua cifra artistica è la verità: l’espressione di una verità che spesso viene mistificata o travisata, e che inizialmente non rappresenta l’obiettivo principale della rivista. In una battuta della serie lui dice: “Vorrei fare con la fotografia quello che Pasolini fa con il cinema: raccontare la vita”. Viene da quello spaccato sociale e vuole raccontarlo, mostrarlo, ma soprattutto ha la capacità di trovarne la bellezza, di coglierla anche dove apparentemente non c’è.
È la rappresentazione della modernità di quegli anni. Penso ai film che precedono quel periodo: da La dolce vita a Accattone. Sono due facce della stessa medaglia – una racconta il sogno, l’altra la realtà più cruda – ma entrambe fanno parte dello stesso mondo. E lui viene proprio da quel mondo lì: vorrebbe vivere la Dolce Vita, perché aspira a quel mondo, ma porta dentro di sé le sue origini, la sua verità. È figlio di quegli Anni Sessanta e, a Playmen, arriva con il desiderio di raccontare questa realtà. La sua».

C’è stato, nella preparazione del personaggio, un fotografo o un artista di quegli anni che hai osservato o studiato come riferimento?
«Mi sono documentato molto sulla tipologia di fotografia di quel periodo. Negli Anni Sessanta la fotografia era ancora quella dei posati, dei fotografi da studio. Poi arrivano figure che cambiano tutto: penso a Fellini, che fu tra i primi a volere fotografi “d’assalto” sui suoi set, fotografi capaci di raccontare il movimento, il mosso, la realtà. Mi sono ispirato anche a diversi artisti, penso a Helmut Newton e ad altri grandi fotografi che hanno saputo raccontare la nudità, non in modo patinato. Piuttosto come espressione dell’animo del soggetto, nella sua complessità e verità.
Un riferimento importante è stato anche Blow-Up: quel film racconta proprio di un fotografo da studio che, però, ama la fotografia anche all’aperto, in esterno. E non a caso l’episodio centrale del film avviene in un parco. Quella ricerca di autenticità, di realtà non filtrata, di verità in movimento, è qualcosa che ho cercato di riportare anche nel mio personaggio».
Gli Anni Sessanta e Settanta sono stati un decennio che ha inciso fortemente anche sul ruolo dell’immagine come strumento di affermazione e di potere, quanto di occhio sull’attualità. Quanto secondo te la lezione di quella stagione arriva ai giorni nostri pensando al ruolo dei fotografi e dei creativi di oggi?
«Nella prima stagione siamo a cavallo tra i Sessanta e i Settanta: una generazione che ha appena superato il ’68, la generazione beat, quella del Piper, quella che guarda all’Inghilterra. Io credo che dal ’68 in poi si possa parlare di modernità. Più passano gli anni, più questo concetto sembra allungarsi. Per i nostri genitori la modernità era il periodo immediatamente postfascista mentre il “contemporaneo” erano forse gli anni Settanta e poi Ottanta. Oggi, invece, la modernità è andata avanti cronologicamente: per me comincia proprio dal ’68, perché lì c’è stata una rottura con una sorta di ancien régime, se vogliamo usare un parallelo con la storia francese. Prima c’era un mondo patriarcale, postfascista, un’educazione rigida, severa, una visione chiusa della famiglia, della società, della realtà stessa.
Gli anni Sessanta – e in particolare la loro fine – hanno rotto questo schema prestabilito e confezionato, inaugurando il mondo come lo conosciamo oggi. Non a caso, anche da un punto di vista estetico, oggi torniamo continuamente a quegli anni: nei colori, nei costumi, nello stile. L’estetica dei Sessanta e Settanta è diventata una fonte d’ispirazione per il contemporaneo».
Nella serie la ricostruzione estetica è estremamente fedele a quel periodo, ma il ritmo, la narrazione, il linguaggio sono molto contemporanei, quasi pop. Quindi vi siete trovati a interpretare personaggi di allora, ma con temi e toni che parlano ancora di oggi.
«Sì, esatto. Ed è proprio questo, secondo me, il valore di questo racconto: è una storia che parla di quegli anni, ma parla anche e soprattutto di oggi. Uno potrebbe pensare che certe problematiche siano superate, e invece no: ancora oggi si parla di emancipazione femminile, di parità di genere. Adelina Tattilo è portatrice di questi valori, di questa necessità di cambiamento, e il fatto che nel 2025 se ne discuta ancora dice molto.
Quello che però mi colpisce – e lo dico come riflessione personale – è che in quegli anni le battaglie nascevano da ideali forti e da esigenze reali. Oggi, invece, spesso ho l’impressione che molte battaglie siano combattute più per moda o per mostrarsi agli altri, per sentirsi accettati, che non per una reale convinzione. Si lotta non perché ci si creda davvero, ma perché lo si debba far vedere, per sentirsi parte di qualcosa.

Negli anni Settanta, invece, si combatteva perché non si poteva più andare avanti in quel modo. Si arriva alla legge sul divorzio, ad esempio, perché era inaccettabile continuare a vivere in un Paese in cui non si poteva divorziare. Era una necessità concreta, e la donna, in particolare, subiva ogni tipo di prevaricazione. Quelle sono grandi conquiste sociali nate da un’urgenza reale, da un “non se ne può più”. Lì c’era l’ideale, il motore autentico.
Oggi, invece, capita di vedere persone che magari si espongono per essere accettate, ma dietro manca una coerenza, un pensiero strutturato. Si fa una battaglia di facciata, ma nel resto della propria vita si è incoerenti con ciò che si proclama. E forse questo nasce anche da un minor senso critico, che a sua volta deriva da una conoscenza più superficiale. Perché se io faccio una cosa ma non conosco il resto, non capisco le conseguenze, allora finisco per essere incoerente».
Paradossalmente sembra di assistere a un ritorno a quel tipo di conformismo contro cui, invece, ci si era battuti.
«È esattamente questo il punto. Oggi c’è un nuovo conformismo, solo che è “alla moda”. Può sembrare un concetto contraddittorio, ma in realtà è proprio così: è un ritorno a una forma di non consapevolezza, al seguire l’onda di ciò che funziona nel momento. E la cosa curiosa è che “funziona”, sì – ma per quanto tempo funziona? Perché le battaglie di allora non erano legate a una moda o a una dinamica temporale. Funzionavano sempre, perché nascevano da un’esigenza reale.
Oggi, invece, tutto ha un tempo brevissimo: ciò che funziona oggi, domani non funziona più. Viviamo in una velocità diversa, drammatica quasi. Uno stesso pensiero o movimento può nascere e morire in una settimana, in base a eventi del tutto casuali. E allora viene da chiedersi: che cosa sto seguendo davvero? Su cosa si fonda il mio pensiero? Ecco, secondo me, questa è la grande differenza tra quell’epoca e quella di oggi».
Nel rapporto con la protagonista Carolina Crescentini/Adelina Tattilo, come avete costruito il dialogo, la dialettica tra lo sguardo maschile e quello femminile?
«Proprio su questo si basa la serie, secondo me. Hai colto il punto centrale: lo sguardo femminile legato a una rivista erotica trasforma quella rivista in una rivista di costume, non più solo in un prodotto destinato agli uomini e al loro piacere. Adelina Tattilo racconta la sessualità anche per le donne, in un momento storico in cui le donne non erano consapevoli del proprio corpo o della propria sessualità. Era un argomento tabù: in famiglia non se ne parlava, e la Chiesa – insieme ai poteri riconosciuti – esercitava un giudizio forte, per cui la sessualità era considerata peccato, qualcosa di cui vergognarsi o da vivere solo dopo il matrimonio.
Non c’era conoscenza, ma c’era l’istinto, il desiderio, la curiosità. E allora come affrontarlo, se non si hanno risposte? In famiglia non puoi chiederle, in chiesa neppure. Eppure sono domande naturali, umane. Nella serie raccontiamo una donna che mostra le donne e parla alle donne, non solo agli uomini. E questo, in quegli anni, era davvero rivoluzionario».
La redazione della rivista più audace dell’epoca, nella serie affaccia provocatoriamente sul Cupolone, avamposto per antonomasia di moralismo e tradizione. Che immagine di Roma emerge?
«Emerge una Roma glamour, innanzitutto. Questo è il punto di partenza, ma nel racconto c’è anche una dicotomia interessante: da un lato il contrasto con la Chiesa e i benpensanti, dall’altro la presenza di un prete amico di Adelina, suo ex compagno di scuola, che è una figura positiva. È un personaggio che, pur venendo da quel mondo, ha in sé il germe della modernità: è capace di ascoltare, di comprendere, di aprirsi al cambiamento. Perché, accanto a chi ha esercitato ostracismo e chiusura, c’erano anche tante persone predisposte all’evoluzione dei costumi.
Certo, all’inizio la Chiesa, l’intellighenzia, i cosiddetti “benpensanti” vedevano Playmen come ilmale assoluto. Ma quella provocazione, quell’affacciarsi sul Cupolone, rappresenta proprio la sfida di Adelina: la volontà di confrontarsi apertamente con un potere che per secoli aveva dettato le regole del comportamento femminile e della morale pubblica».
Oggi che viviamo nel tempo dell’immagine “spammata” ovunque, soprattutto con i social, la fotografia ha perso il peso, la dirompenza artistica che poteva avere un tempo?
«Assolutamente sì. Oggi parlano tutti – e troppo – mentre allora non era così. C’era la visione del fotografo, e solo lui sapeva davvero cosa voleva ottenere. Anche perché banalmente non c’era un monitor per vedere subito le immagini: la fotografia la vedevi solo dopo, in camera oscura.
E proprio lì, piano piano, prendeva forma. Era autentica, perché conteneva anche il difetto, e dal difetto spesso nasceva l’espressione artistica. È proprio quello che la rendeva vera.

In questo senso mi viene spontaneo un parallelo con il Neorealismo italiano: i grandi film neorealisti avevano un modo nuovo di osservare la realtà. Non la manipolavano, la accoglievano.
L’imprevisto succedeva, e rimaneva dentro al film. Era la realtà che si mostrava allo spettatore così com’era. Ecco, la fotografia di quegli anni era la stessa cosa: l’imprevisto che accade e che magari notavi solo dopo, quando la foto veniva stampata – ma che poi scoprivi essere bellissimo. Oggi invece abbiamo filtri, correzioni, Photoshop… e tutto questo ha tolto molto di quell’autenticità».
Dell’audacia del tuo personaggio, cosa ti porteresti a casa?
«Sicuramente la libertà. È un personaggio molto libero: è bisessuale e vive la sua bisessualità con naturalezza, senza paura di essere ciò che è o di desiderare ciò che desidera. Ha una grande consapevolezza di sé. E quella libertà nasce anche dal non avere paura del giudizio degli altri.
Io, nel mio lavoro, sono costantemente soggetto al giudizio – degli altri, ma anche di me stesso.
Lui invece è più libero, forse proprio perché ha meno strumenti, e quindi è meno soggetto a quell’autocritica continua che spesso ci blocca. È paradossale, ma a volte avere meno strumenti significa essere più liberi. Più sai, più ti fai domande, e più diventi severo con te stesso».
Immagini della serie di Camilla Cattabriga/Netflix – Ufficio Stampa