Continuano gli esami volti a scovare la verità sulla morte della modella marocchina, che denunciò lo scandalo del Bunga Bunga.

Nel 2011 Imane Fadil aveva appena 25 anni. Era una modella marocchina ed era nella squadra della Lm Management, l’agenzia di Lele Mora. Fu così che in quell’anno si ritrovò ospite di tutte quelle serate note ormai con il nome inflazionatissimo di Bunga Bunga, nella villa di Arcore di Silvio Berlusconi.

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Imane ha partecipato, in totale, a otto “serate eleganti”, che descrive nella bozza del libro che aveva intenzione di pubblicare (il titolo, nelle sue intenzioni, doveva essere Ho incontrato il diavolo) e che è diventata pubblica, dopo la sua morte, sulle pagine de Il Fatto Quotidiano.

Da quel 2011, infatti, Imane ha sempre voluto gridare a gran voce la propria verità, costituendosi parte civile nel processo Ruby Bis e Ruby Ter. All’epoca querelò anche Emilio Fede per diffamazione, ottenendo una condanna in primo grado contro il giornalista. Ciò che Imane racconta è ormai cosa nota: le feste, il sesso, la speranza di ottenere un lavoro più o meno fisso in televisione e persino il sospetto di una setta adoratrice del demonio dietro tutto ciò che accadeva in quel di Arcore. “Sì lo so che sto dicendo una cosa forte, ma è così. E non lo so solo io, lo sanno tanti altri” diceva appena lo scorso anno a un giornalista de Il Fatto Quotidiano, parlando di “decine e decine di femmine complici”.

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Dopo aver parlato fu il buio. Imane descriveva e dipingeva un periodo di forte depressione e di esclusione. Il marchio deve aver pesato più del coraggio. E se ora, ovunque, continuate a leggere il suo nome è perché l’1 marzo scorso Imane Fadil è morta in circostanze secondo alcuni sospette, anche perché l’esame tossicologico pareva mostrare la presenza di sostanze radioattive nel suo organismo.

Un caso assurdo, che sembra andare oltre ciò che potrebbe risultare umanamente immaginabile. Prima di morire, Imane era ricoverata da un mese all’Humanitas di Milano, ma era da un po’ di tempo che non stava bene. Colpa sicuramente dei danni – soprattutto psicologici – causati dalla mediaticità del caso e da minacce e pressioni ricevute per la presa di posizione assunta.

Certo, non deve essere stato facile essere Imane Fadil dal 2011 a oggi ed è tutto sommato comprensibile che la modella si sentisse perseguitata, tanto da associare i propri malesseri a un avvelenamento indotto. Sebbene ci sia un’indagine in corso – parrebbe – per omicidio contro ignoti, è bene tuttavia sottolineare che gli esami e i risultati dell’autopsia richiedono tempi lunghissimi. L’Enea, centro specializzato che ha analizzato i campioni di organi di Imane, ha recentemente reso noto che in realtà non sono state trovate tracce di radioattività. L’ipotesi di avvelenamento è quindi da escludere, ma ancora restano ignoti i risultati dell’autopsia, che verranno svolti dall’Istituto di Medicina Legale di Milano e saranno disponibili tra un mese. Da qui anche le ipotesi che si susseguono nelle ultime ore di una malattia rara che potrebbe aver spento la vita di Imane.