L’uscita del nuovo progetto di discografico è l’occasione per una riflessione sulla creatività ai tempi dell’IA, sull’eredità del graffitismo e sull’estetica street. Le parole di Emis Killa.
Con ‘Musica Triste’, disponibile dal 5 dicembre, Emis Killa firma uno dei progetti più identitari della sua carriera, un album che torna alle radici più crude e viscerali dell’hip-hop. Un disco nato dopo diverse metamorfosi, modellato senza inseguire formule mainstream ma seguendo impulso, istinto e necessità espressiva. Strofe lunghe, rime serrate, un impianto rap compatto e una scrittura che privilegia l’immediatezza.
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Accanto alla musica, però, ‘Musica Triste’ si distingue anche per l’immaginario visivo a partire dalla cover. Una copertina che mette al centro figure femminili in chiave street, come tributo esplicito alle donne che hanno ispirato una parte importante del suo percorso. Ma l’artwork dialoga anche con estetiche urbane, hip hop culture e nuovi processi creativi che contribuiscono a definire una visione artista che va oltre le note.
Ed è proprio di questo che parliamo con Emis Killa: dalla costruzione dell’immagine, dagli immaginari visivi del rap di oggi al rapporto tra creatività e tecnologia.
‘Musica Triste’: perché?
«Nasce dal titolo del pezzo omonimo. Diciamo che ciò che mi ha ispirato è stata, banalmente, la caption Instagram di un artista francese che si chiama Eric Cristian, un pianista e compositore di cui sono molto fan. Compone tantissimi valzer come Chiaro di luna, e in un post aveva scritto una cosa tipo: Io non sono triste, la mia musica lo è. Ho pensato: beato te. In realtà io faccio della musica triste e forse un po’ lo sono anch’io. Questa cosa, nel momento in cui poi ho scritto il testo, mi ha ispirato. Infatti il ritornello di quel pezzo dice: Fai ancora musica triste nonostante la faccia in giro, nonostante questo, nonostante quell’altro.

Perché effettivamente, gran parte delle mie hit sono tristi, anche i pezzi d’amore. E non è per forza la tristezza da “mi lancio dalla finestra”, però hanno sempre una vena nostalgica. Parole di ghiaccio è un amore finito, Fuoco e benzina è una dichiarazione d’amore, però sempre con quella vena un po’ di nostalgia. In generale, le mie canzoni preferite della mia discografia sono tutte molto tristi. Io forse sono fan della musica triste: a me la roba allegra, tolto da giugno a settembre, non piace molto. E quindi da qui è nato tutto.
Poi questo titolo si può riversare su tante sfaccettature. Siamo in un momento storico della musica che è forse un periodo un po’ triste, in tutti i sensi. La musica oggi viene valorizzata poco: lo si diceva già anni fa, ma oggi ancora di più, c’è poca attenzione. È come se ci fosse un disturbo dell’attenzione collettivo: ci stufiamo subito, si scrolla tutto, in due secondi togli, passi oltre».
C’è un’interpretazione che più di altre vorresti fosse colta da chi ascolta?
«Secondo me è bello lasciare aperta questa interpretazione, nel senso che ognuno gli dà il suo significato. I rap può essere molto scurrile, provocatorio, a volte becero… sono cose che a me piacciono, ma qualcuno può definirle tristi. E quindi il titolo ha tante letture: per questo mi piaceva. E mi piaceva anche la lettura legata alla musica in generale, perché è molto di impatto. Molti si aspettano che il disco sia “tristetto”, in realtà no: ha molta roba dentro.
Rispetto a Effetto Notte — che era un disco molto più ambizioso dal punto di vista della scrittura, e che io stesso riconosco essere un disco un po’ pesante — questo no. Se uno vuole ascoltarsi un disco rap per divertirsi, non si mette Effetto Notte. Questo invece non ha neanche la presunzione di essere un concept album: è un insieme di brani che ho messo insieme perché mi piacevano».
Cover e artwork del disco
E veniamo, allora, alla copertina che per la prima volta non ti vede protagonista.
«La scelta della copertina deriva dal fatto che non volevo contestualizzarlo come un disco triste. Abbiamo messo questo immaginario, cercando di unire i punti cardine dell’album: ci sono tantissimi pezzi dedicati all’universo femminile, in tutte le sue vesti. Pezzi club, pezzi d’amore e un po’ di strada; infatti le ragazze in cover è come se formassero una gang. Non è un album intimo e non ha la presunzione di essere un disco profondo. È un disco abbastanza colorato. Da qui, il primo appiglio per dire: “Vabbè, non c’è bisogno che ci sia la mia faccia”.

È anche un po’ una presa di posizione, non lo nego: io faccio musica da vent’anni, non ho più l’ansia di trovare per forza un modo per vendere due copie in più. La copertina era più bella così, ti dico la verità: non avrei saputo come inserirmi, in quale contesto mettermi al centro di questo album, perché c’è dentro veramente di tutto. Quindi secondo me era più bello raccontarlo così. E coinvolgere anche altre facce».
Per quanto riguarda, invece, l’artwork e l’estetica di questo disco come l’avete pensata? Com’è visivamente questo disco e quali immagini avevi in mente mentre lo scrivevi?
«Non ti nego che, al di là della copertina, è stato difficoltoso creare l’artwork, perché avevo molto chiara l’idea della cover e non tutto il resto. Per questo sono stati fondamentali i grafici e, in generale, il team con cui ho lavorato, che ha portato degli input. Sono loro ad aver presentato un immaginario grafico e da lì ho selezionato le cose che mi sembravano più coerenti facendone proprio un discorso prettamente estetico. Non c’è un messaggio nascosto dietro quelle immagini.
Semplicemente, ho cercato di mantenere la linea della cover, motivo per cui ci sono elementi che vengono ripresi. Per esempio il doberman che abbiamo usato per le foto, alcune delle ragazze presenti in diversi contesti, sempre molto simili: tutto parte dallo stesso shooting. Ripeto: non è ‘Effetto Notte’ che aveva un concetto dietro per cui lì mi ero sbattuto, avevo pensato a ogni sfaccettatura. In questo caso no: qui, secondo me, serviva un immaginario forte, estetico, e quello doveva essere».
Il ragazzo con la “fame negli occhi” e la passione per il writing
All’inizio della titletrack ti chiedi che fine abbia fatto il ragazzo che aveva la fame negli occhi. Di recente hai postato alcune immagini che ti mostrano alle prese con il writing: quanto è rimasto in te di quella cultura, di quel mondo? E quanto oggi senti il bisogno di tornare a quella dimensione?
«Guarda, mi sento di dirti che in me è sempre rimasta viva: continuo a essere un grande fan della cultura hip hop americana. Sono anche un collezionista di libri sul writing, li faccio arrivare; tutte queste biografie di writer newyorkesi, mi guardo le foto, tutto l’immaginario della fine degli Anni ‘70… mi piace tantissimo. Forse perché quella roba lì io l’ho respirata di striscio, un po’ durante l’adolescenza e l’infanzia: la vivo con romanticismo. Questo per dire che non demonizzo un ragazzino di 16 anni di oggi a cui ne frega dei graffiti della metro di New York o di alcune sfaccettature del rap. Perché persino io – che oggi posso sembrare quasi un mezzo pioniere, un veterano, un “piccolo veterano” – quando sono arrivato ero considerato qualcosa di strano che “non aveva il background” rispetto a che c’era prima.
Non saprei dirti, invece, quanto oggi ci sia ancora in giro, al di fuori del mio cuore e della mia testa, di questa cultura. A volte ho l’impressione che ci siano tutti i mezzi per renderla più grande di prima. Basti pensare al Muretto di Milano, che per noi era un momento occasionale, mentre oggi è un punto di ritrovo fisso: il mercoledì ci sono duecento persone. Quindi dico: se lì ci sono riusciti, si potrebbe farlo ovunque. Però mi chiedo quanti ne siano davvero interessati. È come se oggi non fosse più così “cool” inventare rime al momento, fare un bel graffito o dedicarsi alla breakdance.
Oggi, per quello che mi riguarda, le cose percepite come “cool” a volte mi sembrano superficiali. Anche nella moda: i ragazzi oggi sono molto più attenti all’estetica, mentre a me non interessava. Il nostro era un genere da nerd. Adesso è di tutti, come il calcio. Questo porta benefici economici, ma riflette anche una società che non sempre mi rappresenta».
Come si alimenta, in un modo che va sempre più veloce, la creatività?
«Per me parte tutto dalla passione e finisce lì: se sei appassionato, continui a sperimentare. Richiede tempo e dedizione ma se è il tuo lavoro, il tempo lo trovi: cosa viene prima del lavoro? Tolti i figli, nel mio caso niente. Poi ci sono tanti approcci: c’è chi sta in studio tutti i giorni e vede cosa esce; e chi invece – come me – ci va solo quando ha qualcosa da dire. Se vado controvoglia non esce niente. È giusto rimanere sul pezzo, non mollare per un mese, sennò perdi la forma. Ma non devi viverla in modo meccanico. C’è chi lo fa, tipo Jake: se gli piace il beat, scrive al volo, come un plug-in umano.
Io no. A me dà fastidio persino sentire il beat in loop mentre scrivo: lo spengo e scrivo con la base in testa. Quindi bisogna conoscersi e usare le proprie forze in modo funzionale: se sei come me, vai in studio quando hai voglia. Sennò ti spompi».
L’intelligenza artificiale nella musica
Che strumento è l’intelligenza artificiale nella musica?
«È spaventoso. Parlando di creatività, tra un po’ ci sarà poco spazio per quella umana. Il creativo sarà chi sa usare l’IA, non l’autore bravo. L’unica cosa che salverà gli artisti sarà la presenza scenica… finché non inventeranno qualcosa che sostituirà anche quella! Io sento cose fatte con IA tali per cui a volte non capisco se sono reali o meno. Mi chiedo cosa possa capire la gente, tra qualche anno sarà impossibile distinguere. Certamente è utile nella quotidianità perché ti dà risposte immediate e in musica l’abbiamo usata per creare una demo velocemente. Ma se crea parole, melodia, tutto… dove andiamo?
È un discorso enorme. Io non leggerei un libro scritto da una macchina: non ha un’anima. Ma le generazioni dopo forse non si faranno questo problema… Ci sono categorie più a rischio, tipo i doppiatori che l’IA replica già benissimo e anche noi artisti dovremo tutelarci sul lato creativo. D’altra parte non puoi essere più forte del progresso. Non puoi fare la coalizione “Abbasso l’IA”. Devi capire come conviverci.
Io non ho soluzioni ma penso: “meno male che non ho iniziato oggi e che tra dieci-quindici anni smetto. Chi inizia ora deve competere con una macchina che scrive le barre. Non possiamo fermare l’IA. È come il paziente zero del Covid: esponenziale, è già troppo tardi. E anche io che la critico… la uso per avere informazioni veloci. Ma ovviamente apre un dibattito grandissimo».
Foto di Adriano Alia