Un album che è una confessione, una dichiarazione d’intenti e la testimonianza di una creatività che va sempre alimentata. Cosa ci ha raccontato Fabrizio Moro.
È vero, non si giudica dalla copertina, ma a volte le immagini sanno portare chi le guarda già dentro l’anima di un progetto. Succede con la copertina del nuovo album di Fabrizio Moro, ‘Non ho paura di niente’. Toni saturi e caldi, l’artista seduto con il volto nascosto tra le mani e il corpo piegato in un gesto che unisce introspezione e vulnerabilità. La luce, tagliente e radente, scivola a scolpire un’atmosfera densa, quasi sospesa, dove la quiete sembra nascondere una tempesta interiore.
L’articolo continua più sotto

La nostra newsletter bisettimanale dedicata al mondo dell’arte e della cultura
È un’immagine che profuma di stanze silenziose, di pensieri compressi, di un’urgenza emotiva che preme per venire a galla. E quel titolo inciso come dichiarazione coraggiosa e, in fondo controcorrente. Proprio come la scelta di pubblicare solo in formato fisico (CD, vinile, vinile deluxe green petrol in edizione numerata), decisione profondamente coerente con lo spirito del progetto.
‘Non ho paura di niente’ è il decimo album in studio dell’artista e arriva a due anni e mezzo dal precedente capitolo discografico. Nove tracce prodotte da Katoo, che scavano nella parte più cruda e autentica dell’artista, intrecciando confessione personale e sguardo critico sul presente. È un disco che non si limita a raccontare: espone, mette a nudo, pretende tempo e ascolto.

«A me è successo spesso di prendere le parti peggiori di me e trasformarle attraverso l’arte in qualcosa di migliore rispetto a come le percepivo», racconta Fabrizio Moro. «Il processo creativo mi ha sempre spaventato: una delle mie paure più grandi è proprio quella di perdere la capacità di trasformare ciò che ho dentro in una canzone. È qualcosa che mi porto dietro da sempre, da quando ho iniziato».
In che senso?
«Disco dopo disco ho fatto una fatica immensa a rimettere in moto gli ingranaggi. Prima di arrivare alla canzone che sblocca il resto del lavoro, mi ci sono sempre voluti mesi. E questa volta è durato più del solito, perché era un periodo particolare: il disco è nato nel post-pandemia, davanti a me c’era un enorme punto interrogativo. Ho impiegato davvero tanto tempo a riattivarmi. Sono state scritte più di quaranta canzoni in circa due anni e mezzo, per poi scegliere le nove che compongono l’album».
LEGGI ANCHE: — Francesco Maria Mancarella e la musica come materia: «L’arte non ha limiti»
Un disco sofferto, dunque.
«Sì, ci ho messo molto più tempo a trovare la canzone che mi ha sbloccato, Non ho paura di niente. Sai, quando entri in studio ognuno ha il suo processo. Io parto sempre in sordina: è un po’ come quando vai in palestra, il primo giorno ti fanno male le ossa, poi hai l’acido lattico… o quando ti rimetti in moto dopo tanto tempo. Le prime canzoni che ho scritto non mi hanno dato una bella sensazione. Poi, improvvisamente – e non so spiegare bene perché – arriva quel momento in cui riesci ad afferrare una fiammella che si accende e la fai diventare un fuoco.
Da lì in poi vai avanti. Per me non è mai stato semplice. Non l’ho mai vissuta come una cosa istintiva, quel cliché dell’ispirazione che arriva, ti metti lì e scrivi. È successo pochissime volte: due o tre in tutta la vita, prendere la chitarra, un foglio, scrivere una canzone dalla A alla Z in dieci minuti. In genere ci ragiono molto».
Lo sguardo al presente, il tempo e il digitale
Si avverte anche una sorta di disillusione verso il sistema e il momento storico. È così?
«Faccio parte di quella generazione di cantautori che sta un po’ in mezzo. Non siamo né “i vecchi”, che hanno avuto il tempo di costruire un pacchetto importante di canzoni, né i giovani che oggi si affidano con più istinto alle nuove forme di comunicazione. Siamo un po’ in mezzo, “i figli di nessuno”, come ho raccontato anche in un’altra canzone. L’ho sofferta molto questa situazione, perché vengo da un periodo storico in cui un disco nasceva in studio e ci si restava per mesi, a volte anni. Con i musicisti e il produttore, facendo ricerca.
Poi è arrivata questa bolla di musica digitale, esplosa improvvisamente, soprattutto negli ultimi anni. A me ha traumatizzato: non riesco ad andare di fretta, a stare dietro al sistema, al mercato, al concetto di mainstream delle case discografiche. Io ho bisogno di tempo. Alla fine ho capito che la soluzione era continuare a lavorare come ho sempre fatto. Per questo disco è stato così».
Prendersi il proprio tempo, oggi, è un lusso?
«Mancavo dalla scena discografica da due anni e mezzo, e quando l’addetto ai lavori arriva e ti dice “Guarda che così ti si scordano”… Va bene, mi si scordano, e poi si ricorderanno quando esce il nuovo disco. Tanto oggi è tutto saturo: ci sono miliardi di artisti. Ormai cantano tutti, scrivono tutti. C’è quello che insegna come non fare la schiuma alla birra, quello che si mostra in bikini, quell’altro che canta… è tutto virale.

Per me invece era importante scrivere canzoni che potessero restare nel tempo. Certo, anch’io penso ai numeri, perché i numeri ti permettono di sopravvivere. Ma per un cantautore la cosa fondamentale è diventare – tra virgolette – immortale attraverso le proprie opere. A volte ci riesci, la maggior parte delle volte no: su 300 canzoni magari hai tre evergreen. Ma è quello il concetto.
E per far sì che accada io non posso andare di corsa. Non ci riesco».
Rispetto ai tuoi lavori precedenti, si avverte però anche un senso di maggior pacificazione con te stesso e con il mondo. Ti senti più sereno?
«Sì, forse per la vecchiaia o chiamiamola maturità… ma sento di essere più sereno. Prima di arrivare ai 50 anni ero traumatizzato da questo numero ma, una volta toccato, non so se sia venuto naturale o se l’ho ricercato… però ho fatto un bilancio. E sono contento, perché ho avuto una vita bella fin qui. Ho avuto solo bassi bassi o alti altissimi: è stata un’altalena che mi ha portato ovunque. E soprattutto ho preso consapevolezza che oggi faccio la vita che volevo fare da adolescente. Questa cosa mi ha rasserenato tanto. Mi dà soddisfazione. Se dovessi morire oggi – cosa che mi darebbe fastidio, perché devo ancora fare un sacco di cose – avrei comunque tantissime cose da raccontare a Gesù Cristo.
Posso dire di sentirmi in debito con la vita e su questo incide, forse, anche il fatto di avere figli adolescenti. Quando erano bambini mi confrontavo in un modo; ora che sono grandi c’è un’apertura diversa. Costruire un rapporto con due persone che amo immensamente e da cui sono amato immensamente mi ha dato un equilibrio diverso rispetto a quando erano piccoli. E credo che questa cosa si rifletta anche nella musica».
Un’estetica coerente: dalla cover alla musica
Le immagini che accompagnano il progetto, dalla cover dei singoli già usciti all’album, raccontano una grande coerenza. Come avete pensato l’artwork e i videoclip?
«Guarda, non è merito mio, per quanto la supervisione sia mia. Ho capito che anche l’immagine è importante, ma me ne sono reso conto molto tardi nel senso che non ho mai prestato troppa attenzione al lato estetico, che invece è importante quanto le canzoni. Oggi l’ho capito e sono stato aiutato dalla mia casa discografica, la BMG. Spezzo una lancia a loro favore: al di là dei suggerimenti preziosi su copertina, styling, fotografie, colori… questi ragazzi mi hanno riportato un po’ indietro nel tempo, perché hanno un approccio alla musica completamente diverso rispetto alle altre multinazionali. Li ho conosciuti in un momento in cui volevo quasi smettere di scrivere canzoni, ero arrivato al punto di essere veramente stanco.
Con loro mi è tornata la voglia di fare musica come negli anni ’90. Ci siamo seduti, abbiamo parlato dei pezzi, delle idee. Non sono persone che corrono dietro ai numeri, non hanno quell’approccio malato alla corsa claustrofobica che non si ferma mai. E lo dimostra anche il roster artistico che hanno. Mi hanno dato un’iniezione di energia che mi mancava da tanto tempo».
Adesso che hai anche l’esperienza di regista alle spalle, è cambiato il tuo sguardo sulla fotografia, sull’uso del linguaggio visivo per supportare la musica?
«Ho sempre concentrato la maggior parte dell’energia sulle canzoni e sulla parte musicale. Do un occhio diverso alle immagini, sì, ma non perché ho girato due film. È una cosa che in realtà mi è sempre interessata un po’ meno».
Torno al punto da cui sei partito, la creatività e la paura di perderla. Che cosa ha fatto ripartire il motore da cui è nato questo lavoro?
«La frustrazione. La frustrazione di non essere più considerato all’altezza; la frustrazione di non essere più visto come lo ero durante l’ultimo Festival di Sanremo che ho vinto; la frustrazione di non essere più percepito come quello che fa un pezzo di successo da troppo tempo. Io mi sono sempre sentito un combattivo, anzi un combattente. E ci sono momenti in cui questo mondo – che è molto futile – ti mette alla prova: quando va tutto bene salgono tutti sul carro, quando va male salgono in pochi. Ed è così davvero: gli amici si contano sulle dita di una mano. In quei momenti in cui ero in down (ne ho avuti diversi) la frustrazione e la rabbia, che derivano dal mio carattere, dalla mia estrazione e da tutto quello che mi è successo, mi hanno permesso di riattivarmi, di riaccendere le micce che si erano spente dentro».
E come alimenti oggi la creatività?
«Con la voglia di non mollare. È molto semplice e anche un po’ scontato, ma è la verità. Lo dico sempre ai ragazzi che vogliono fare questo mestiere: “Voglio fare il cantautore, questi sono i miei pezzi”. E io rispondo che non bastano i pezzi. Il talento è il 50%, poi c’è un 40% di determinazione e un 10% di fortuna. Io la divido così. È un mestiere in cui sì, la canzone è fondamentale perché è il cuore di tutto – ma dietro c’è un backstage fatto di porte in faccia. I momenti in cui nessuno ti si fila: vai dal direttore di una radio che ti sembrava amico e ti dice “Non c’è spazio per passarti”. Vai in un programma televisivo quando esce il disco e ti dicono “Non c’è spazio, c’è quell’altro… vediamo la settimana prossima”.
È lì che ti viene voglia di mollare. E a me è venuta spesso, perché passi la vita ad aspettare telefonate che non arrivano: quella del direttore artistico, quella di Sanremo, quella del produttore, quella dei finanziamenti… e a un certo punto ti stufi di aspettare.
Quando potresti mollare davvero – materialmente ed economicamente – è lì che non devi farlo. È questo che cerco sempre di spiegare ai ragazzi: “Sono bravo a scrivere canzoni”, mi dicono. E io rispondo: “Amico mio, non basta. Non basta”. Qual è la differenza tra i grandi e tutti gli altri? I grandi come Vasco, Ligabue, Zucchero non stanno lì solo perché hanno scritto belle canzoni. Stanno lì perché, nel bene e nel male, sono e sono stati forti».
Foto Shipmate