La nostra intervista a Tananai, che ci racconta il suo primo EP, Piccoli Boati, uscito il 21 febbraio per Sugar Music sulle piattaforme digitali.

Il 21 febbraio è uscito su tutte le piattaforme digitali Piccoli Boati (Sugar), il primo EP di Tananai, che arriva sull’onda del successo di Giugno, brano inserito nelle playlist più ricercate di Spotify. Piccoli Boati racconta – in modo assolutamente spontaneo – la nascita e la fine di una relazione, con una buona dose di ironia e di malinconia. Ce lo siamo fatti raccontare dal cantautore.

Ciao Tananai, ho ascoltato il tuo album e mi piace molto il fatto che inizi con una canzone romantica e poi va tutto a degenerare. Vorrei capire se i brani rispecchiano un ordine cronologico, a questo punto.
Il racconto è molto semplice. Parlo delle diverse fasi di una relazione e sì, le canzoni sono state scritte in ordine cronologico, mentre vivevo il momento, non a posteriori. Il seno sinistro è la canzone più vecchia ed è l’unica che avevo nel cassetto. L’ho scritta appena conosciuta la mia ex ragazza, ero innamorato e felice. Penso si capisca dal mood. Poi c’è stata, come penso sia normale in ogni relazione, la parte della routine e in quel periodo non ho scritto.

Confermi quindi che quando un autore è sereno non scrive?
Assolutamente, ne sono convinto. Ho ricominciato a scrivere quando la relazione ha iniziato a degenerare, appunto. Ho scritto raccontando le varie fasi di una rottura. 10k scale è il momento in cui sei arrabbiato e vorresti spaccare tutto, Giugno è la fase in cui inizi a darti la colpa di tutto quello che è successo e Paglie è un addio consapevole e a mente fredda, quando ti dici che è stato bello, ma stammi bene. Poi arriviamo a Saturnalia, perché Bidet è più una sorta di interludio, un insieme di scuse per mancarsi.

Ecco, parliamo di Saturnalia.
Cronologicamente è l’ultima canzone che ho scritto. L’ho finita tre settimane fa e parla di un nuovo amore. Mi sono innamorato di un’altra ragazza e quindi ho ricominciato il ciclo. Stavolta però con una consapevolezza diversa. Il seno sinistro era feliciona, Saturnalia è un po’ più schiva, mettiamola così. Un po’ come se fossi un animale ferito che si guarda intorno con circospezione. Dentro non vorresti innamorarti di nuovo, ma alla fine – che ti devo dire? – sono un tenerone.

Infatti hai presente quando gli amici ti chiamano in continuazione perché si sono lasciati? Ho pensato che il tuo EP sarebbe un ottimo consiglio di ascolto per tutti i cuori infranti, così si riprendono. In questo lo vedo come una sorta di concept album.
Bellissimo! Sì alla fine è un concept album, dai.

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In Bidet, che tu hai definito un interludio, ho notato però il subentrare dell’ironia, che non è alla fine così trascurabile. Il momento in cui ci si sente pronti a sdrammatizzare tutto sommato è decisivo.
In generale tendo a non prendermi mai troppo sul serio. Mettiamola così: ci sono alcuni momenti in cui scrivo in base all’ispirazione e nel momento stesso in cui mi viene da scrivere. Non riesco a scrivere a tavolino, anche perché mi sono avvicinato alla scrittura da poco. Mi viene naturale approcciarmi con l’urgenza di scrivere. Capita che non scrivo per mesi e poi in una settimana scrivo tre canzoni. Se ti prendi troppo sul serio, la vita diventa troppo pesante. Se ti svegli e hai la fortuna di fare quello che ti piace, credo che si debba essere felici. Non stiamo cambiando il mondo. Le persone che fanno qualcosa di serio sono altre. L’ironia salta fuori quando sento l’urgenza di scrivere in seguito alla noia. Tutti i pezzi che sono usciti prima, da Calcutta a Ichnusa, nascono più che altro da una sorta di noia. A un certo punto mi viene da chiedermi Ma perché mi sto rompendo così le palle?. E, in quei momenti, voglio semplicemente mettere nero su bianco anche la noia e poi la noia si trasforma automaticamente in ironia. I pezzi in cui sono più ironico sono i pezzi in cui mi annoio di più, perché li vedo come un modo per distrarmi. Come se facessi una story su Instagram vestendo i panni di un personaggio.

Ho seguito tra l’altro su Instagram, complimenti. Sono dipendente ora dal tuo account.
Se vuoi intervistare Renato, sono pronto. Ti dico uno spoiler, ci saranno molti altri personaggi presto.

Molto bene. Tornando all’album, c’è ironia ma anche citazioni. Penso a 10k scale, in cui citi Montale. Mi sembra uno specchio della spontaneità con cui scrivi.
Sì, assolutamente. 10k scale, per esempio, è l’evoluzione di un altro pezzo che avevo scritto per la fine di un’altra relazione e che si chiamava Un paio di scale. Avendo vissuto un po’ di più ed essendo cresciuto, sono aumentate le scale che ho fatto. In generale, non mi metto mai a pensare che devo tirare fuori una citazione di un certo tipo, altrimenti non avrei parlato del bidet come metafora del mancarsi. Io sono convinto che nessuno si inventi niente, soprattutto nel 2020. Penso che aver letto molto e il fatto di essere stato sotto gli influssi di determinati artisti e poeti, faccia sì che salti fuori la citazione in maniera naturale. Io scrivo di getto e, ad esempio, nel caso di Paglie ho scritto un verso che fa Mi sento come sotto al sole una Kinder Fetta al Latte. Risentendola ho capito che mi ricordava qualcosa, edera la poesia di Ungaretti, Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie.

Ovviamente riadattata.
Sì assolutamente, ma mi ricorda quella roba lì e mi è venuto in mente dopo che l’ho scritta. Sono le tipiche poesie che studi alle elementari e alle medie. È il subconscio che salta fuori prepotentemente.

Le canzoni le scrivi tutte al piano e come hai lavorato poi alla produzione dei brani?
Io ho sempre prodotto. Il mio primo approccio alla musica, a parte i primi strumenti, deriva proprio dalla produzione. Ho iniziato scaricando il primo programma per produrre e da lì ho passato notti insonni. Non saprei spiegarti come sviluppo nella produzione quello che scrivo. Per alcuni pezzi mi metto al piano, per altri mi metto al computer, faccio la base e seguo il flusso. Ormai lo faccio da così tanto tempo che è un mix tra memoria muscolare e sensazioni del momento. Mi sento molto più a mio agio a produrre che non a suonare uno strumento, in realtà.

Però fai tutto tu?
Sì, anche se in questo EP sono stato fortunato perché ho lavorato con Wolf, che è il chitarrista del progetto ma che poi fa molto di più. Ora viviamo insieme e suoniamo insieme. Io faccio una bozza e poi la lavoriamo, gli strumenti li ha registrati tutti lui che è un grandissimo musicista e ha la mia stessa sensibilità. Ha avuto un ruolo attivo nella composizione.

E per il tour sei emozionato?
Non vedo l’ora. Io alla fine suono con i miei amici e, per questo, sono sempre all’interno di una sorta di comfort zone. Per quanto un live possa andare bene o male, mi preme divertirmi con loro e la gente lo percepisce. È una costante dei nostri live, ci prendiamo per il culo sul palco. Non è uno show molto frontale.

Molto condiviso, immagino.
Forse un po’ troppo. I pezzi di Piccoli Boati, in realtà, li abbiamo già fatti nella prima parte di queste date, ma la gente non poteva cantarli con noi. Sono curioso di capire se canteranno anche questi, visto che sono stati i nostri bambini per tanto tempo. Vogliamo vedere come camminano sulle loro gambe.

L’uscita di un Ep, in effetti, è un po’ come un parto.
Sai, è un paragone azzeccato, perché è come una mamma che vive il momento in cui il figlio va via di casa. L’hai visto nascere, l’hai visto crescere e adesso non è più solo tuo. Hai un po’ di paura per come lo tratteranno, però sei anche contento, perché è giusto così e ora può vivere di vita propria. Non sono più i miei pezzi, è bello che possano diventare i pezzi di qualcun altro.

Adesso quindi sei felice e per un po’ non scriverai.
Assolutamente no. Ho finito di scrivere.

Un’ultima curiosità me la devi togliere sul nome.
Vuol dire piccolo casinista, penso sia tipico del Nord Italia. Mi chiamava così mio nonno quando ero piccolo. Mi diceva sempre Sei un tananai. Un po’ sinonimo di piccola peste.