La band milanese L’Introverso ha pubblicato Shock, un progetto discografico che disegna un macrocosmo dalle sfumature apocalittiche su cui si stagliano le emozioni dei singoli. La nostra intervista.

Un titolo che non lascia spazio a dubbi. È Shock il nuovo album di inediti che la band milanese L’Introverso ha pubblicato lo scorso 4 ottobre. Un lavoro che si snoda in dieci tracce le quali visivamente, in copertina, acquistano la forma dell’Hannya, maschera popolare giapponese in cui ira e dolore si accompagnano teatralmente.

E l’iconografia, insieme alle note e alle parole, disegna un mondo contemporaneo caratterizzato da tinte cupe sul quale si muovono i singoli individui con tutte le loro emozioni. Un macrocosmo, dunque, popolato da microcosmi esistenziali fatti di contrasti, disuguaglianze e incertezze. Ci siamo fatti raccontare il progetto da Nico Zagaria (cantante e autore dei brani) e da Giacomo “Futre” Cigolotti (bassista).

Anticipato dal singolo Sbalzi d’umore, il 4 ottobre scorso avete pubblicato l’album Shock: come descrivereste il progetto?

Nico: Lo descriveremmo come uno sfogo adulto. Nel senso che abbiamo tirato fuori tutto quello che avevamo dentro ma, essendo ormai dei trentenni, lo sfogo non è stato distruttivo, come quello adolescenziale e post adolescenziale. È stato riflessivo, in quel periodo cercavamo comunque di costruire. Di costruirci.

Oltre al titolo, anche la copertina è di grande impatto: qual è l’intenzione con cui avete scelto l’immagine per accompagnare visivamente la vostra musica?

Futre: Siamo tutti e tre appassionati di cultura giapponese e ci sembrava fosse un’immagine che catturasse bene lo spirito del disco dato che in questo album i demoni ricoprono una parte importante di tutte, o quasi, le canzoni.

Dando anche solo una lettura della tracklist, emerge un’atmosfera pre-apocalittica: quale quadro, o magari monito, volete fornire della società di oggi?

N: Ci fa piacere che qualcuno abbia notato i titoli nell’insieme. Alcuni li abbiamo cambiati poco prima di registrare proprio perché non si integravano bene con gli altri. Il quadro di oggi è a tutti gli effetti pre-apocalittico, ce lo dice il 98% degli scienziati del mondo: abbiamo solo dieci anni per salvare il pianeta dalla catastrofe climatica. Senza parlare delle diseguaglianze o del cosiddetto ascensore sociale bloccato. La nostra generazione è cresciuta coi genitori che hanno fatto un unico lavoro per tutta la vita, invece noi non sappiamo mai cosa faremo tra un anno. Spero che i giovanissimi di oggi siano più fortunati. E a quanto pare non stanno di certo aspettando la fortuna, stanno provando a prendersi il loro futuro nelle piazze di tutto il mondo. Quello che la nostra generazione non ha fatto.

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Viviamo in un mondo che sembra aver perso le proprie coordinate: l’uomo ha tradito se stesso?

N: Si pensa sempre all’apocalisse come a qualcosa che arriva dall’esterno, chi l’avrebbe mai detto davvero che l’avremmo provocata noi stessi? Oltre a tradirci da soli, abbiamo distrutto tutto quel che abbiamo toccato e di cui avremmo dovuto prenderci cura. Ma nonostante tutto, non bisogna perdere l’ottimismo. Per la prima volta nella storia, l’umanità ha la possibilità di guardare nella stessa direzione, di lottare per la stessa cosa, e siamo convinti che questo può darci la forza per vincere la battaglia contro la crisi climatica. Questo grazie ai giovanissimi di cui parlavo prima, che stanno dando una chance anche a noi più adulti, ma ancora giovani: quella di supportarli attivamente, con l’energia giovanile che ci rimane e con la saggezza del nostro vissuto.

In questo panorama dis-umano si stagliano le emozioni del singolo: che colore hanno in questo racconto?

F: Non saprei dire quali colori siano, però osservando il quadro da una certa distanza credo siano ben visibili i contrasti complementari. L’instabilità sentimentale ed emotiva che ha accompagnato la creazione di questo album emerge proprio dai diversi colori che, scontrandosi, completano il quadro delle emozioni che abbiamo vissuto nel periodo della scrittura.

A riprova dell’attenzione all’iconografia, ci sono una serie di foto che vi ritraggono in cui a turno indossate una maschera giapponese: ci spiegate che significato ha nel contesto del vostro progetto musicale?

F: La maschera rappresenta un demone e nella cultura giapponese i demoni non sono qualcosa al di fuori di noi. Sono le nostre tendenze negative con le quali lottiamo per restare in equilibrio. Il fatto che ogni tanto ci sia e ogni tanto scompaia è una piccola rappresentazione di questa battaglia che combattiamo ogni giorno della nostra vita.

Uno dei modi che usiamo per esorcizzare parte delle nostre tendenze negative è sfogarlo nella musica, da qui il legame tra la musica e i demoni.

Dai sogni di bambini alla disillusione dell’oggi, con le sue incertezze e disuguaglianze: come si fa a non cedere al nichilismo? E da dove si può partire per ricostruire una società che possa guardare diversamente al futuro?

N: A volte è difficile non cedere al nichilismo, ma in fondo noi crediamo ci sia valore in tutte le cose, anche se spesso non si vede. Basta decidere di lucidare lo specchio del nostro valore e di quello degli altri, per poterlo vedere risplendere. Le cose della vita lo appannano tutti i giorni, ma anche noi, tutti i giorni, abbiamo la possibilità di passarci un panno sopra. L’importante è deciderlo. Per ricostruire una società migliore potremmo partire dall’empatia, da quello specchio degli altri: sforzarsi di provarla per le persone più vicine ma anche per gli individui più lontani. Col dovuto equilibrio, prendendoci cura degli altri, la conseguenza è che ci prendiamo cura anche di noi stessi.

L’arte, e nello specifico la musica, può avere ancora un ruolo sociale o addirittura civile?

N: Sicuramente l’arte può sensibilizzare su vari temi. Innanzitutto perché gli artisti possono avere visibilità. Certo, chiunque sia famoso ce l’ha, ma gli artisti di solito hanno un seguito più “innamorato” perché toccano corde diverse. Possono decidere cosa farne di questa visibilità, se sfruttarla solo a proprio vantaggio o se utilizzarla per fare qualcosa di buono anche per gli altri.

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Siete di origine milanese, Barona è il vostro quartiere: che rapporto avete con la città?

N: Io amo Milano, in Italia non c’è altro posto in cui vivrei. C’è vita, c’è energia, e se la conosci bene ci sono anche posti tranquilli nei quali stare solo con te stesso o con le persone più care. La Barona per me è casa. Nonostante la fama che si porta dietro, è un quartiere in cui si vive bene. C’è silenzio, sembra di stare in un paese, ma è dentro la città, a due passi da tutto. Fino agli inizi degli anni 2000 era un quartiere difficile, ma sono contento di essere cresciuto qui. Mi ha formato, mi ha dato quella durezza necessaria che oggi, da adulto, spero di incanalare in qualcosa di positivo.

Questo album darà anche vita a un tour? Che set vorreste portare sul palco?

N: Sì, l’anno prossimo dovremmo toccare le maggiori città italiane. Al set ci stiamo pensando. Con questa svolta della drum muchine e di qualche suono elettronico, dovremo essere bravi a trovare il giusto equilibrio tra le parti suonate e le basi. Ma è una nuova sfida che ci fa sentire vivi.