Il cantautore racconta la genesi di ‘HERE’, un concept che nasce dalla ricerca, attraversa le macerie e trova una nuova forma sul palco.

È HERE il nuovo album di Rbsn, uscito il 28 novembre (ODD Clique, distribuito da The Orchard). HERE segna un nuovo capitolo nel percorso artistico del cantautore, ampliando le atmosfere oscure e psichedeliche del precedente disco Stranger Days verso una dimensione più profonda e sperimentale. Le sonorità accompagnano anche lo storytelling del progetto, che – dalla prima all’ultima traccia – sembra raccontarci un viaggio interiore, dal dubbio alla consapevolezza. Ne abbiamo parlato proprio con Rbsn, moniker di Alessandro Rebesani.

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Di HERE dici che è «un nuovo punto di partenza e un modo per farmi trovare». Mi racconti in che modo e cosa rappresenta per te questo progetto?
«Per qualche anno ho brancolato nella scena e mi sono confrontato con tante realtà, anche all’estero. Stranger Days l’ho pubblicato con Ropeadope, che è una label in realtà molto grossa. Dopo anni di wandering, ho voluto creare una mia realtà su Roma con persone con cui lavoro. Sia creativamente – in studio – sia a livello culturale, con eventi e assembramenti di vario genere.

Con ODD Clique ho messo delle buone basi, quantomeno legislativamente, per lavorare con distribuzione, ufficio stampa e così via. La mia musica in Italia in questo momento non va bene, è troppo per questo paese, chi lo sa. Volevo avere la libertà di fare il mio percorso, facendo le mie scelte e decidendo io che musica scrivere, perché ci manca pure che me lo deve dire qualcun altro.

È un po’ la presa di coscienza che con le proprie forze si può fare qualcosa, però bisogna anche segnalare la propria posizione, far capire da che parte siamo. L’immagine del razzo di segnalazione, in questo senso, è super didascalica. In una notte buia di musica commerciale, o quantomeno di lavori discografici che non necessariamente si sovrappongono bene con il mio, voglio vedere se riesco a trovare qualcuno che ha voglia di fare l’indagine che voglio fare io».

Parliamo di ODD Clique: com’è stato il processo creativo e quali influenze ti hanno maggiormente arricchito in questo viaggio?
«Devo dire che arrivavo già bello saturo di ascolti e di cose che volevo cercare di metabolizzare. Nello studio di registrazione ho riversato la musica che mi piace e questo mi ha poi unito alle persone con cui lavoro: Emanuele Triglia, Federico Romeo, Pasquale Strizzi, Luca Gaudenzi, Andrea Guarinoni. Con loro sicuramente condivido, chi più e chi meno, parte delle antenne che captano le cose che ci servono.

Per anni ci siamo mandati la musica senza mai lavorare insieme: questo ci ha preparati al linguaggio che dovevamo imbrigliare. Se devo partire dal lato tecnico, siamo stati fortunati perché – dopo anni di dischi negli scantinati – ora siamo in uno studio molto bello, davvero. Un Pyramid a Formello, che ha l’iconografia degli studi degli anni ‘settanta’70: grandissima sala di ripresa, vetro, banco, nastro. Abbiamo fatto questo disco in un modo molto antico, forse perché anche nella creazione della musica siamo arrivati a completare il cerchio.

Dopo una grande saturazione, si può fare musica con quello che ti pare. Noi siamo tornati un po’ all’inizio della catena, avvalendoci di strumentazione vintage, ma molto caratterizzata, molto specifica e molto speciale anche per noi. Do sempre un occhio ai mercatini per cercare gli strumenti vintage bizzarrissimi, che però danno quel carattere in più. All’inizio della registrazione e della tracklist, le nostre influenze erano super omogenee. In This Life, si sente questo portamento che è a metà tra il cantautorato e un beat che è quasi un campionamento dell’hip hop.

Abbiamo mischiato questi due mondi sonici e, verso la fine del disco, con Things She Likes, si sente ancora di più l’accostamento e l’integrazione tra questi due universi. Soprattutto registrando Things She Likes, ora mi viene che pensammo fosse uno strano mix tra Nick Drake e Madlib sia a livello di suoni che a livello proprio di portamento. Direi che i grandi maestri sono stati i grandi autori delle rivoluzioni culturali degli ultimi anni, quindi D’Angelo e Sly, che è gente che ha vissuto e dormito sotto al banco dello studio di registrazione. Uno dei grandi pilastri di questo disco è la ricerca, la creazione di una forma e lo scavare anche nei suoni. Sono molto contento perché tutte le scelte sono state giuste, in virtù del fatto che abbiamo dedicato, secondo me, il tempo giusto».

Al di là delle sonorità, è un album che procede anche in ordine cronologico raccontando una storia, a suo modo. Penso a Beautiful Unknown che chiude l’album.
«Per me fare un disco come questo è stato difficile. Convogliare tutti i diversi tipi di energia che servono per fare questi brani non è stato facile. Ci potevo pure lasciare le penne, sinceramente. Nella vita succedono delle cose che ti fanno pensare: Cavolo, questa è la cosa più difficile che ho fatto. E a più riprese è successo con questo disco. Sono quindi molto sollevato che sia fuori perché significa che sono sopravvissuto.

Però ecco, sì, è sicuramente un cammino da questo strano luogo post-adolescenziale, di smarrimento. Ti chiedi se esiste qualcun altro come te, se sei giusto o sbagliato. Beautiful Unknown è l’approccio ai trent’anni, non necessariamente da solo. È un po’ come mi sento: sono qui, guardami, ma cerco anche qualcun altro. L’arco narrativo del disco è questo: ritrovarsi sia spiritualmente, sia pragmaticamente all’interno della società e magari con qualcuno che ti accompagna nel tortuoso vivere di un secolo».

Come hai tradotto tutto ciò nell’estetica dell’album?
«In realtà è tutto molto semplice. Ho cercato sempre di fare dei lavori che, a livello di colpo d’occhio, fossero importanti. Per Soul / Searching, ho lavorato con Brando Pacitto. Abbiamo girato questo Super 8 e gli ho detto: Brando, perché non scannerizziamo la pellicola e ci giochiamo un po’?. Poi, con Stranger Days, ho pensato alla porta di led nel deserto, che era molto suggestiva ed era un modo sostenibile per fare qualcosa di più sensoriale. Mio padre era un fotografo, quindi io ho sempre nutrito quell’aspetto. Quantomeno ho sempre voluto che ci fosse coerenza tra audio e video. Invece, con questo lavoro, le foto sono tutte di Federico Zanghi e Edoardo Capasso.

Loro hanno un’impostazione sicuramente diversa dalla mia. Io ero super affascinato dal realismo magico, da cose molto più simboliche. Qui c’è un simbolismo: ci sono io in questo mondo di macerie, c’è questa luce rossa. Per quanto riguarda l’artwork e l’inserto, abbiamo utilizzato una bellissima Leica o una Hasselblad — un body pazzesco — perché Capasso era stato assistente di Nan. Con questa macchina fotografica speciale, e con amici molto bravi, abbiamo realizzato tutte le foto e l’inserto del disco a Forte Trionfale, a Roma, che per descrivere un mondo di macerie ci sembrava il luogo più giusto: è un’ex base militare, con questi cunicoli super inquietanti, è molto figo.

C’è questo hangar che un po’ riflette anche il mio essere sempre alla ricerca di uno spazio, che è sicuramente il mio luogo di partenza quando registro qualcosa di nuovo. Volevo sicuramente un setting più semplice rispetto agli altri, anche meno cervellotico, e questo è quello che abbiamo ottenuto: un mondo di macerie in cui l’unica cosa che si può fare è costruire».

Come hai intenzione di tradurre tutto questo mondo sonoro nei live che ti attendono?
«È una bella sfida, anzi: una domanda super appropriata, perché è proprio una delle sfide dei prossimi giorni. Ho questo spirito fortemente collaborativo, quindi anche quando sono io quello che fa il discorso o il solista, ci tengo che sia dato lo spazio giusto anche a chi la musica l’ha costruita con me. Vorrei che accadesse questo, e qualcosa in mente ce l’ho già: il 10 febbraio, al Teatro Basilica di Roma, succederà quello che ho in mente. Vediamo quanti saranno gli imprevisti sulla strada, spero pochi.

Per me il live è la prova del nove di un musicista, ovviamente. Riportare questo disco non sarà facile, più che altro perché la forma della canzone registrata è breve. Invece io vorrei dare molto più spazio alla musica e creare un’istanza in cui il pubblico non sia soltanto fruitore del brano in sé, che dura 3 minuti e 33, ma sia più partecipe. Deve prestare di più l’orecchio per capire verso quale brano stiamo andando, che transizione stiamo facendo, perché cambio strumento, o perché lui ha un campionatore bizzarro: nel disco non c’è questa cosa, ma al pubblico serve.

Vorrei attenermi allo script, però dare qualche spunto in più per viaggiare insieme a chi viene al live. Credo che sarà un po’ più discorsivo: così come tu hai vissuto il disco come un concept con un suo svolgimento, vorrei che anche il live lo fosse, meno a compartimenti stagni. Non senti la canzone che hai ascoltato su Instagram per la prima volta, ma qualcosa che dica: perdiamoci. Let’s get lost».

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