Nel panorama dei progetti finanziati dal PNRR, il Progetto Changes è l’unico interamente dedicato alla cultura: un ecosistema nazionale che unisce università, enti, istituzioni e imprese per migliorare la resilienza culturale del Paese. All’interno di questa rete, la professoressa Michela Addis, economista e docente di marketing culturale dell’Università Roma Tre, guida una ricerca che punta a trasformare radicalmente il modo in cui viviamo le esperienze culturali digitali.
Il cuore dello studio è chiaro: capire come la tecnologia possa diventare uno strumento di benessere, relazione e partecipazione, e non l’ennesima attrazione progettata “per i giovani”, ma incapace di lasciare un impatto reale.
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“Gli studenti sono stati la nostra sveglia”, racconta Addis. “Durante il laboratorio andavamo spesso a vedere installazioni o esperienze culturali digitali pensate per coinvolgere il pubblico giovane. Molte erano affascinanti sulla carta, ma nella pratica risultavano frustranti, poco profonde, incoerenti. Ci siamo chiesti: perché? Dove si inceppa il meccanismo?”
Cultura e benessere: le competenze culturali
Il progetto parte da un presupposto essenziale: il pubblico non è un blocco uniforme. Cambiano le competenze culturali, la familiarità con la tecnologia, le aspettative emotive, il modo di interagire.
“Non puoi proporre la stessa esperienza digitale a tutti”, spiega Addis. “Non basta investire nella tecnologia e sperare che funzioni. Serve conoscere davvero chi hai davanti”.
La ricerca evidenzia due variabili decisive: il dominio culturale, cioè quanto il visitatore conosce o comprende il contenuto artistico e il patrimonio tecnologico, ovvero il suo rapporto con strumenti digitali, interfacce immersive, linguaggi multimediali.
Da qui nasce la necessità di progettare esperienze differenziate e co-creative, capaci di adattarsi ai diversi profili del pubblico e di coinvolgerlo attivamente.
Il benessere come nuovo parametro culturale
Il gruppo della professoressa Addis propone un cambio di paradigma: non misurare il successo di un’esperienza culturale digitale sulla bigliettazione o sul numero di accessi, ma sulla capacità di generare benessere. Un concetto complesso, multidimensionale: emozioni positive, coinvolgimento, relazioni, senso di significato e autorealizzazione.
“Il digitale dovrebbe amplificare, non sostituire, l’esperienza culturale”, dice Addis. “Se dopo una visita immersiva il pubblico non si sente più connesso, più ingaggiato, più consapevole… allora la tecnologia non è servita”.
Uno dei passaggi più interessanti è l’impianto metodologico che la ricerca propone alle istituzioni culturali: progettare attraverso processi co-creativi, lasciando spazio al pubblico di intervenire, personalizzare, contribuire.
“Il museo non può più sapere tutto in anticipo”, afferma Addis. “Deve creare moduli flessibili, permettere allo spettatore di metterci del suo. È lì che nasce il vero engagement”. Questa prospettiva, oltre a rendere l’esperienza più significativa, stimola nuove competenze nei giovani che partecipano al progetto: capacità di dialogo, progettazione multidisciplinare, gestione di team eterogenei, pensiero critico.
Una nuova generazione di professionisti culturali connessi al reale
Alla fine, il valore più evidente del progetto è quello formativo: i ragazzi imparano a osservare il mondo culturale contemporaneo senza ingenuità, valutando cosa funziona, cosa no e perché.
“Li vedi il primo giorno terrorizzati”, conclude Addis. “Poi, dopo tre mesi di lavoro, affrontano problemi complessi con naturalezza. È lì che capisci che stanno diventando professionisti capaci di usare il digitale non per spettacolarizzare, ma per generare impatto sociale”.