Il Museo Savitsky in Uzbekistan conserva 80.000 opere d’avanguardia. Giulio Ravizza racconta la storia vera di Igor Savitsky e della sua impresa.

«I fatti assurdi di questo romanzo sono veri, mentre quelli ordinari sono inventati». È con questa premessa che si apre Anche se proibito. La folle impresa di Igor V. Savitsky, romanzo di Giulio Ravizza edito da Bookabook Editore che racconta la storia straordinaria di Igor V. Savitsky, l’Oskar Schindler delle avanguardie russe: Savitsky riuscì infatti a salvare oltre 80.000 capolavori del cubismo, dell’astrattismo e del futurismo russo dalla censura sovietica, nascondendoli in un museo alla fine del mondo nel deserto del Karakalpakstan.
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Nato poco prima della Rivoluzione d’Ottobre all’interno di una famiglia dell’aristocrazia di Kiev, Savitsky attraversò la fine dell’impero zarista e l’instaurazione del nuovo ordine sovietico, vivendo sulla propria pelle tutte le contraddizioni dell’epoca. Nella Russia sovietica, nonostante l’omologazione imposta dalla propaganda, riuscì a coltivare segretamente il proprio amore per l’arte libera, un’ossessione che diventerà missione di vita: salvare dalla censura e dall’oblio i più grandi capolavori delle avanguardie russe.

L’incredibile scoperta nel deserto dell’Uzbekistan
«Sono inciampato in questa storia, non me la sono andata a cercare. – ci dice subito Ravizza – Ero a Samarcanda con un amico e il mio volo per tornare a casa a Milano era in overbooking, quindi non sono riuscito a rientrare. Ci hanno detto Uno di voi deve andare a Tashkent, la capitale dell’Uzbekistan, e l’altro nel Karakalpakstan, che non conoscevo. Pensavo fosse una barzelletta. Abbiamo fatto pari o dispari, io ho perso e sono andato nella minuscola capitale del Karakalpakstan: Nukus».
Costretto a Nukus – in una yurta – per tre giorni in attesa del volo per Milano, Ravizza ha dunque cercato di capire cosa scoprire in questo ignoto angolo del pianeta. «Ho chiesto all’albergatore – racconta – e lui mi ha detto Guarda, abbiamo un mare che si è seccato, dei laboratori abbandonati dove si facevano le bombe batteriologiche e un museo. Ovviamente, sono andato a visitare il Museo».

Il museo Savickij: un Guggenheim dimenticato
Ravizza – decisamente demoralizzato – a questo punto si aspettava «uno di quei musei di provincia con testimonianze di secondo rango». Di certo non pensava di imbattersi in quello che definisce «un Guggenheim sterminato, gigantesco. Ed ero l’unico visitatore». Giulio Ravizza si trova finalmente al cospetto del semi-sconosciuto Museo Savickij, la cui storia è narrata proprio dalle pagine di Anche se proibito.
Il Museo Savickij (più propriamente il Museo Statale delle Arti della Repubblica di Karapalkstan) – curiosamente – possiede la seconda più grande collezione al mondo di opere d’arte d’avanguardia russa e il The Guardian lo ha soprannominato il Louvre dell’Uzbekistan. A fondarlo fu, nel 1966, Igor Savitsky, che ne fu anche il primo curatore. Affascinato e stupito da questo mondo d’arte sommerso, Giulio Ravizza si è mosso tra le sale piene di dipinti chiedendosi cosa ci facessero in quel luogo opere di Aleksandr Volkov e di Vladimir Lysenko.
«C’era una ragazza che mi accendeva e spegneva la luce in ogni sala. Per risparmiare non avevano acceso le luci del museo. – continua a raccontarci Giulio – Non sono un esperto di arte del ‘900, ma avevo capito di avere davanti artisti incredibili. Così le ho detto Scusa, mi spieghi?. E lei ha tirato fuori una foto, un santino di un mezzo matto in pigiama, coi capelli sparati per aria. Ha detto Questo è il nostro direttore, Igor Savitsky, ha fatto tutto lui. Sono tornato a Milano sicuro del fatto che ci fosse una storia fantastica dietro questo posto».

Una ricerca lunga 13 anni
Così è, ma all’inizio sul fantomatico Museo di Igor Savitsky Giulio Ravizza non ha trovato nulla. «Tutto questo avveniva 13 anni fa. – ci dice Giulio – Mi son detto Allora questa storia la racconto io. Ed eccoci qua». Dalla scoperta del Museo alla pubblicazione del libro, tuttavia, di acqua sotto i ponti ne è passata. Soprattutto perché le ricerche sul Museo e sulla figura di Igor non sono state per niente facili. «Io faccio le reclame, mi occupo di pubblicità. – scherza Giulio – Non sono uno storico e sono consapevole dei miei limiti. Ho fatto quindi quello che si fa nelle aziende: ho messo insieme un team di consulenti ed esperti».
Tra questi, va sicuramente menzionata Marinika Babanazarova, che ha vissuto con Igor e gli subentrò come direttrice del museo nel 1984. Va poi menzionato Luca Nannipieri e psicologi e grafologi, «per cercare di fare analisi sulla scrittura di Igor». E ancora – elenca Giulio – «un archivista che mi ha consentito di accedere agli archivi estoni e trovare tantissime informazioni dei servizi segreti sulla famiglia di Igor». «È stato un lavoro di squadra che mi ha permesso di dissotterrare la storia di persone che hanno vissuto in clandestinità. – chiosa Ravizza – Igor Savitsky ha fatto tutto questo muovendosi nel grigio, tra le pieghe della burocrazia. Anche la sua famiglia d’origine però ha vissuto in clandestinità. La difficoltà è stata questa, perché non era gente che viveva alla luce del sole».
Savitsky – nato a Kiev nel 1915 – in effetti non ebbe vita semplice. «Tuttavia – ci dice Giulio – sono riuscito a trovare gli eredi del fratello che mi hanno anche fornito foto di famiglia. In 13 anni sono riuscito a mettere insieme questo mosaico che ho riportato nel libro. Igor era proprio come lo descrivo, anche se alcuni eventi sono un po’ più romanzati. Era così: sempre in pigiama, in pantofole. A volte metteva per sbaglio due cravatte o parlava francese senza volerlo».

Un uomo fuori dall’ordinario
La storia incredibile di un personaggio fuori dall’ordinario. «Come si può credere che uno dei più straordinari musei d’arte contemporanea al mondo sia in mezzo a un deserto, in uno Stato che sembra finto? – ci spiega Giulio – Invece esiste. La vita, in questo caso, imita l’arte». Ancor di più se si pensa che, nel rincorrere la vita di Savitsky, Ravizza si è imbattuto in altre storie incredibili, nella quotidianità della famiglia di Igor ad esempio, che meriterebbe un romanzo a parte.
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«Aveva uno zio apparentemente torbido. – dice Giulio – Una persona cancellata dalla storia sovietica e dai libri di storia. Eppure, è colui che ha fatto scappare Trotsky. Volevo concentrare però il libro su questo incredibile museo e sulle sue premesse. Il problema, nella storia di Igor, è che ci si chiede Ma a questo chi gliel’ha fatto fare?. È una domanda che non ha mai avuto una vera risposta. Mi sono quindi concentrato sulle origini».

Indubbiamente, ha influito il fatto che i genitori di Igor fossero dei «sofisticatissimi collezionisti di avanguardie e che lui vide bruciare la loro dacia, che ne era piena». La storia d’amore – motore del romanzo – è invece inventata. «Avevo bisogno di un motore narrativo. – dice l’autore – Altrimenti non riuscivo a muovermi dentro le pagine. I personaggi sono però il motore vero». Per ricostruire la figura di Igor, Giulio si è concesso quindi numerose interviste a persone che lo hanno conosciuto.
«Tutti mi raccontavano un po’ la stessa storia. – ci dice – Ad esempio: L’ho visto e non ho pensato che fosse lui il direttore del Museo. Oppure: Aveva questo sguardo magnetico, ma a volte faceva anche stramberie incredibili. Mi hanno raccontato che una volta lui è andato in trance, gli hanno chiesto se stesse bene e lui ha risposto È così che dormo, non dormo da una settimana, mi lasci un attimo riposare. Fatto!. Sembrava matto come un cavallo».

Curioso nel libro anche l’episodio dell’incontro con gli ispettori del Ministero della Cultura che erano andati, appunto, ad ispezionare il Museo. «Lo trovarono fisicamente dentro un vaso, perché lo stava restaurando dall’interno. – ci dice Giulio – Lui è uscito dal vaso tutto sporco di colla di alabastro, con i capelli unti, mezzo nudo. Quella storia l’ho trascritta parola per parola perché me l’ha raccontata l’uomo che stava restaurando il vaso da fuori».
Non è solo la realtà che supera la fantasia il fulcro di questa storia. C’è anche la volontà da parte di Giulio di raccontare un’arte necessaria, ieri quanto oggi. «Negli anni ‘60 e ‘70, Igor esponeva come se niente fosse quadri che raffiguravano le miserie della vita nei gulag. – racconta Giulio – E lo faceva in un paese che non accettava in alcun modo la dialettica. La versione ufficiale era che i gulag rieducavano attraverso il lavoro e che era bello parteciparvi. Invece ci sono quadri di gente scheletrica che soffre il freddo. In quegli anni di dittatura, Igor era coraggiosissimo: esponeva quadri sull’amore omosessuale, contro il culto della personalità, contro le purghe staliniane. Mi ha anche stupito trovare in un’ex Repubblica dell’Unione Sovietica un luogo di selvaggia libertà rispetto a quella che era la mia comprensione della dittatura».

I quadri proibiti
Il Museo di Savitsky è nato, di fatto, come un luogo di dissenso. Agli ispettori di cui sopra, Igor disse che i quadri rappresentavano Auschwitz o l’amore tra fratelli: «Era bravissimo a rigirare la frittata. – commenta Giulio – Quando voleva, era un oratore straordinario». Uno Schindler «di cui Spielberg non ha fatto il film», spiega ancora Ravizza. «La missione che mi sono dato era di restituire giustizia, raccontare a qualcuno questa storia perché si sappia. Per me sarebbe un sogno se questo libro scatenasse altri libri, altri film, un dibattito. Vorrei che la gente andasse a vedere questo museo e la sua collezione. Però è chiaro che non è un museo con i riflettori puntati addosso, perché solo arrivarci è un’Odissea. È quasi irraggiungibile».
Tuttavia parlarne è fondamentale. «Non ce ne rendiamo conto, ma viviamo in un’epoca storica in cui siamo tutti molto dipendenti da una sorta di pensiero maggioritario. – spiega Giulio – Abbiamo l’illusione che sia tutto molto aperto perché ci sono i social, ma in realtà siamo molto omologati. Il dissenso dei quadri del Museo di Savitsky ti fa capire che c’era quasi più dialettica tra il potere e l’opposizione in tempi di dittatura rispetto al nostro presente. Penso ad alcuni temi divisivi e a come sia piccolo lo spettro della conversazione: la guerra in Ucraina, Gaza. Questi quadri e questo museo ti fanno proprio capire il valore del pensiero minoritario».

In democrazia – argomenta Ravizza – «il consenso ha una qualità alta, chi va a votare ha le idee chiare, capisce che mondo ha intorno ed è una persona formata, consapevole, colta. La dialettica tra un pensiero maggioritario e un pensiero minoritario è sana. E la qualità del consenso migliora la forma e la solidità della democrazia».
«I quadri del Museo di Savitsky sono un manifesto del pensiero minoritario. – conclude – Sono artisti che non si sono fatti dire dal realismo socialista cosa fosse giusto e non si sono fatti indicare un’idea di mondo e futuro. Hanno espresso la loro idea. Certo, hanno pagato un prezzo terribile: alcuni sono finiti in manicomio, altri sono stati fucilati. E Igor cosa ha fatto? Ha raccolto tutti i loro capolavori e ha conservato i loro messaggi intelligenti».