Una cassetta degli attrezzi, aperta, caotica, quasi pulsante. Sullo sfondo, una luce calda che sembra respirare insieme al colore. È la copertina di ‘Amor proprio’, il nuovo disco di Frah Quintale (in uscita il 10 ottobre), ma è anche un autoritratto concettuale: un archivio di strumenti interiori, un gesto di riparazione. Un viaggio emotivo tra vulnerabilità e leggerezza che trova la sua forma in musica ma anche in pittura, due linguaggi che l’artista coltiva da sempre e che questa volta sono confluiti naturalmente l’uno a completamento dell’altro.
Da una parte, parole e note. Il disco racconta un processo di crescita che nasce da una riflessione personale: la vera svolta arriva quando impariamo a stare soli e ad ascoltarci. La trama è il pop alternativo tipico di Frah unito a un’attitudine urban che alterna intimità e vitalità, melancolia e luce.
Dall’altra, il segno visuale. Pittura, gesto, materia. L’artwork del disco nasce infatti da una tela dipinta dallo stesso artista, che racconta la ricerca di equilibrio, la cura di sé e la voglia di riscoprirsi attraverso l’arte. In ‘Amor proprio’ si incontrano due anime per costruire un lavoro intorno a un’idea semplice e radicale. Guarire, mettere ordine, imparare a usare gli strumenti che abbiamo dentro.
Non stupisce, allora, che accanto al disco sia arrivata anche un’esplosione visiva: murales realizzati insieme a un collettivo, affissioni, disegni, grafiche del tour firmate dallo stesso artista. In una coerenza quasi tattile in cui l’estetica espressiva nasce dalla strada e torna alla strada attraversando pittura, architettura, suono. Nel rispetto di quella attitude hip hop che è controcultura e ribellione underground ma con uno sguardo più consapevole e responsabile.
L’intervista a Frah Quintale
Partiamo dalla copertina. È un’immagine che porta la tua stessa firma e dialoga in modo molto diretto con il progetto musicale. Come nasce?
In realtà ho iniziato a lavorare alla copertina in parallelo al disco, ma senza sapere che quel quadro ne sarebbe poi diventato la copertina. Ho sempre avuto la passione per il disegno, e mentre lavoravo al disco dipingevo questa tela. Man mano che andavo avanti trovavo sempre più punti di contatto tra le due cose – temi, simboli, atmosfere – fino a rendermi conto che si stavano raccontando a vicenda. A quel punto mi è sembrato naturale usare il quadro come copertina.
L’album si intitola ‘Amor proprio’: come si lega al quadro?
Il disco ruota intorno all’idea della cura di sé, del guarire da ferite e traumi. La cassetta degli attrezzi, soggetto del quadro, rappresenta proprio questo: un magazzino di strumenti interiori che magari all’inizio è disordinato, ma che se impari a usare nel modo giusto ti permette di aggiustare tante cose. È diventata una bella metafora, venuta fuori in modo molto spontaneo. Mi piaceva anche che il progetto facesse emergere non solo la parte musicale ma anche quella visiva: musica, pittura, estetica. Un insieme che racconta chi sono e completa il quadro, in tutti i sensi.
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È interessante perché quella cassetta, così aperta, sembra anche una finestra, un modo di guardarsi dentro…
Esatto. È proprio quello: uno sguardo interiore, un modo per cercare gli strumenti giusti e fare ordine.
Negli ultimi giorni hai anche realizzato dei murales con un collettivo e ci sono state affissioni in città. Quanto ti appartiene questa parte più street?
Al cento per cento. In realtà ho iniziato prima con i graffiti che con la musica, quindi è una parte fondamentale di me. Racconta anche il mio lato più artigianale: mi piace costruire le cose con le mani. È un aspetto che non ho mai troppo mostrato, anche se ho sempre curato personalmente copertine e video. Nonostante questo, non sono uno da social, non amo inquadrarmi o raccontarmi in video. Penso che quello che ho da dire venga fuori meglio attraverso la musica e il disegno. Per questo progetto mi sembrava il momento giusto per far vedere tutto: chiudo un cerchio.
La cultura hip hop nasce anche dal writing, dalla strada, dalla contestazione. Quanto di tutto questo è rimasto oggi, in Italia e tra i giovani?
Credo che in Italia quella cultura sia arrivata davvero tra gli anni ’90 e i primi 2000. Poi, come accade a tutte le tendenze, quando qualcosa diventa troppo diffuso perde un po’ la sua spinta originaria. Diventa un trend. Io avevo scelto la musica e i graffiti proprio perché erano una forma di controcultura. I miei compagni andavano in discoteca o giocavano a calcio, io avevo i graffiti e la musica.
Oggi paradossalmente essere un artista o un rapper è diventato quasi come essere un calciatore, un modello di successo più che una figura ribelle. Quella componente culturale e profonda dell’hip hop si è un po’ persa, anche se continua a vivere, magari in una dimensione più di nicchia, accanto a fenomeni come la trap.
E oggi, secondo te, le arti che voce hanno nella società?
Spesso vengono viste come un “bene di servizio”, qualcosa da consumare perché ti serve in quel momento. Si rischia di dimenticare il loro valore culturale e civile. Credo che chi fa arte debba anche ricordare questo al pubblico: che dietro a un’opera non c’è solo estetica, ma anche pensiero e coscienza. Altrimenti un quadro diventa solo carta da parati.
Hai disegnato anche le grafiche del tour. Com’è nata l’idea?
Volevo mettere mano personalmente anche alla parte estetica del disco e dei palazzetti. Ho fatto il liceo artistico, poi architettura, e mi è sempre piaciuto disegnare. Trovo affascinante l’architettura dei palazzetti italiani, con quel tocco un po’ brutalista, e mi piaceva l’idea di reinterpretarla graficamente. A un certo punto ho pensato: “Ok, li faccio io”.
Da architetto, ti spiace che San Siro venga abbattuto?
Sì, un po’. Ho avuto lo studio lì vicino per un periodo e ogni volta che passavo davanti allo stadio e vedevo quelle colonne che si avvolgono su se stesse era sempre un colpo d’occhio fortissimo.
Se dovessi esporre le tue opere in un museo o in una galleria, dove ti piacerebbe portarle?
Per il discorso che abbiamo fatto, ti dico New York. Sarebbe un sogno, anche per il legame che la città ha con i graffiti e con tutta la cultura pop.
Con ‘Amor Proprio’, Frah Quintale fonde musica e arti visive in un progetto che racconta la cura, la vulnerabilità e il tempo necessario per ritrovarsi. Un lavoro che conferma il suo sguardo unico sulla contemporaneità, capace di trasformare il linguaggio pop in una forma d’arte personale e consapevole.
Immagini da Ufficio Stampa