Dal 24 settembre arriva su NOVE ‘Mafia Connection’. Nello Trocchia ci spiega perché è fondamentale raccontare oggi le mafie.

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Dal 24 settembre – alle 21.25 su NOVE – arriva la serie Mafia Connection, quattro docu-inchieste condotte dal giornalista Nello Trocchia. Quattro viaggi che toccano Campania, Sicilia, Puglia e Albania, ricostruendo la storia dei boss e dei clan più feroci, svelando le nuove gerarchie delle organizzazioni criminali che hanno deciso di fare la guerra allo Stato. Una sfida non semplice ma necessaria, come ci spiega Nello Trocchia in questa intervista.

Qual è la sfida più grande che affronti quando trasformi le inchieste in linguaggio televisivo?
Secondo me è una sfida complicata, ma anche molto entusiasmante. Il team si compone di diverse persone. C’è la curatrice Carmen Vogani che ha la capacità di tessere i contenuti usando un linguaggio pop con incursioni cinematografiche. Questo è possibile anche grazie all’allargamento della squadra, attraverso professionalità che sanno lavorare giornalisticamente ma anche tenere in mano una macchina da presa. Da Lorenzo Giroffi a Lorenzo Avola e Marco Carta, che sono giornalisti del team. Abbiamo filmmaker di grande esperienza che si confrontano con questo tipo di racconto provando ad usare un ritmo che talvolta può somigliare a quello degli approfondimenti settimanali. Tuttavia, ha uno sguardo più complessivo, perché è un prodotto più lungo e deve avere un filo conduttore.

In questo senso, ti ha aiutato anche l’esperienza?
Con i documentari sui Casamonica usavamo lo stile del documentario classico, con l’interlocutore seduto e la telecamera che lo intervistava senza giornalista. Ma usiamo anche altre modalità. C’è lo stile della strada, con la telecamera nascosta e scene di tensione, come un’aggressione. E poi c’è il narratore, colui che guida e raccorda gli elementi che emergono. Questo è il ruolo che spetta a me. Ci sono anche intercettazioni, contributi. Incrociamo questi frammenti differenti, con origini diverse, per creare un insieme che ha l’obiettivo di tradurre la complessità. Tra i documentari ce n’è uno, I Signori della Camorra, che è secondo me il prodotto che meglio racconta questa sfida.

Nello Trocchia I Signori della Camorra

Sciogliere le complessità

Come mai?
La sfida è prendere un fenomeno criminale complesso e moderno, provare a sciogliere le complessità e renderlo fruibile. Raccontare le strettoie e le difficoltà, ma anche le modernità delle mafie, provando a rendere tutto televisivo. Quindi accessibile a chiunque. Questo consente l’immersione in un fenomeno criminale che non si conosce. Conosciamo indistintamente le mafie, le colleghiamo alla violenza e alla ferocia, ma non conosciamo la specificità dei clan. Eppure sono clan che hanno interessi nei grandi appalti pubblici, nel settore energetico-petrolifero, con modalità differenti da altri fenomeni criminali. Sabato 24 settembre va in onda I Narcos Albanesi. È un clan che non ha prodotti che lo raccontano, perché è molto complicato. Noi proviamo a raccontarlo rendendolo non più semplificato, ma fruibile. Senza perdere la complessità: questa è la sfida.

Immaginavo ci fosse un lavoro enorme, considerando i temi e gli approfondimenti necessari.
È chiaro che ci sia bisogno di incrociare varie modalità di racconto. Abbiamo sperimentato soprattutto con Messina Denaro, perché vogliamo mettere seduti buoni e cattivi. Spesso si mischiano. A volte ascoltiamo chi ha proprio la patente di cattivo – mi riferisco agli amici di Messina Denaro, gente che si è fatta anni di carcere e che giustifica il latitante – che racconta cose terribili. Noi ne de-costruiamo il significato attraverso l’inchiesta. Vogliamo diluire le atrocità che vengono esplicitate e riconsegnare all’ascoltatore l’inquadramento corretto di quella figura. Capisci che è una sfida complicata? Ci proviamo. Uniamo i linguaggi e gli stili, facciamo sedere le figure grigie e, attraverso le inchieste, proviamo ad arrivare tutti. È un racconto con un ritmo serrato che ti consente di tenerti lì. E che ti accompagna all’attenzione della modernità e internazionalità.

Nello Trocchia: il valore dell’inchiesta oggi

Nello Trocchia

In questo senso, secondo te che valore ha oggi l’inchiesta giornalistica?
Lo stesso di trent’anni fa. È il sale e il quid caratterizzante del giornalismo. Il giornalismo esiste se esiste la capacità di porre questioni e mettere in difficoltà il potere. Bisogna dissotterrare le verità bisunte del potere e scoprire i fatti. Cito un gigante come Pippo Fava, ucciso dalla mafia. Lui individuava un tema e si caricava di responsabilità. Quando diceva che il giornalismo evita le tragedie capisci la portata del suo lavoro. È qualcosa di incredibilmente complicato da rendere, ma ci restituisce l’orizzonte. L’orizzonte non è copiare i comunicati pari pari, né accogliere in maniera pedissequa quello che ci dice il potere. L’orizzonte è raccontare quello che il potere non vuole che si racconti.

Il prezzo altissimo in Italia dell’incesto tra politica e informazione mainstream

Perché in Italia è così difficile agire in questo modo?
L’Italia paga il prezzo altissimo dell’incesto tra politica e informazione mainstream. Regna l’idea di parlarsi addosso, la contesa dialettica attorno al nulla. Questo svuota di senso la professione e allontana le persone, perché i giornalisti non sono più credibili. Siamo paradossalmente più vicini al perimetro dei salotti, al potere precostituito. Siamo lontani dal luogo in cui dovemmo stare: a dare voce ai senza potere e a mettere in crisi i poteri che esistono nel paese. È una stagione complicata, perché c’è tanta precarietà tra i colleghi e c’è ancora l’incesto tra politica e informazione mainstream. C’è una diffusa voglia di censura che non si manifesta però in modo esplicito. È quasi autocensura: si evitano temi per non dare fastidio e evitare rogne. Contemporaneamente si moltiplicano i luoghi in cui si parla e si discute delle stesse cose. È come un bicchiere in cui giri sempre la stessa acqua, senza portare mai novità.

Quale potrebbe essere la soluzione?
Gli spazi occupati da gente che si parla addosso potrebbero essere occupati dagli inviati che nel nostro paese fanno inchieste e mettono in discussione il potere. Ma l’inchiesta non conviene perché è una rogna. Porta problemi e grane. È preferibile accettare di buon grado lo scontro, il chiacchiericcio. Anche se è lontano mille miglia dal lavoro giornalistico. Come sta l’inchiesta? Come sta il mondo dell’informazione. È influenzata e raffreddata da diversi fardelli. Però dobbiamo continuare a scegliere quella strada perché è l’unica possibile.

La mafia non è solo memoria

Nello Trocchia

Secondo te è questa la causa del motivo per cui la mafia, nell’informazione mainstream, è ormai vincolata a una narrazione quasi di memoria?
È più comodo. Il ricordo è pratica, non è predica. Ricordare Giancarlo Siani, ad esempio, ci fa bene. Ma se, negli altri giorni dell’anno, chiudiamo la notizia in un cassetto e non ci occupiamo dei poteri criminali che si sono divorati la nostra terra sbagliamo. I poteri criminali sono un fardello, compromettono la libera concorrenza, inquinano e condizionano fattori economici vitali. Pensa all’emergenza Covid o ai soldi che arriveranno col Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Se non ci occupiamo di questo, i criminali penetrano e impoveriscono i territori. Fanno andare via le migliori risorse, costruiscono logiche monopolistiche e offrono lavori sottopagati. La mafia è il miglior braccio criminale, talvolta violento, del potere di chi lavora per il profitto di pochi e per il nocumento della società.

Eppure c’è immobilismo.
Parlare di mafie non conviene perché vuol dire parlare di accordi con la politica, delle istituzioni e dell’imprenditoria. Si parla di mafia quando arrestano qualcuno, ma c’è anche ci viene arrestato perché va a chiedere voti al mafioso del territorio. Siamo tornati al punto in cui, non essendoci delitti eccellenti, di mafia non si parla. Eppure le mafia ha occupato spazi economici importanti. È una scelta tradurre tutto nella commemorazione o nel ricordo. Senza parlare di responsabilità.

Nello Trocchia, Mafia Connection e la necessità di parlare al pubblico

In questo, un progetto come Mafia Connection sembra quasi ricordarci con forza che la mafia è nel presente e non solo nel passato.
La nostra serie è una sveglia che suona fortissimo e che prova a destare le persone. Noi ci rivolgiamo al pubblico. Io esprimo le mie opinioni, ma è un lavoro che vuole continuare a porre la questione sull’attualità dei poteri mafiosi. Vengo dalla provincia di Napoli e so cosa vuol dire vivere in un territorio con la cappa della criminalità. Significa non avere contezza del presente e speranza di futuro. Raccontare i territori è poter dire agli imprenditori a cui è stato tutto bruciato, ai familiari di chi è stato ucciso e ai politici che si ribellano che c’è qualcuno che vuole accendere una luce. L’isolamento parte dal buio.

È un’azione necessaria, quindi, accendere una luce?
Serve perché altrimenti i territori sono soli. La denuncia avviene quando si crea una sinergia di attenzione. Non si può chiedere alle persone di partecipare e poi isolarle dall’attenzione pubblica. Significa chiedere alle persone di essere eroiche, mentre devono sentirsi normalmente dalla parte dello stato perché lo sentono come interlocutore privilegiato. Ma se gli altri poteri sono egemonici, non ti fidi delle istituzioni. Le parole cadono nel vuoto. L’obiettivo è uno: dire ai territori del nostro paese che parlare delle mafie vuol dire anche occuparsi di chi ne subisce le conseguenze. Se te ne occupi è un tema, ci riguarda, scuote i palazzi addormentati.