Federica Fava, ricercatrice presso il Dipartimento di Architettura di Roma Tre, racconta come architettura, ascolto e pratiche culturali possano trasformare paesaggi industriali e periferici in luoghi di benessere collettivo.
Cosa significa prendersi cura di un territorio? E in che modo il patrimonio culturale può contribuire alla salute pubblica, oltre la conservazione dei monumenti e la tutela formale dei beni storici? Sono queste le domande al centro di Reload. Repairing Heritage Landscape. Originating Adaptive Abilities, progetto di ricerca dell’Università Roma Tre che indaga il rapporto tra patrimonio, trauma urbano e benessere collettivo.
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A raccontarlo è Federica Fava, ricercatrice presso il Dipartimento di Architettura di Roma Tre: il progetto fa parte del partenariato esteso CHANGES – Cultural Heritage Active Innovation for Sustainable Society, un’iniziativa finanziata dal PNRR che mira a creare un sistema di ricerca, formazione e innovazione per la tutela e valorizzazione sostenibile del patrimonio culturale.
I luoghi rotti e la loro cura
Reload. Repairing Heritage Landscape. Originating Adaptive Abilities è un dialogo che mette al centro luoghi “difficili”, spesso esclusi dai racconti ufficiali del patrimonio: centrali nucleari dismesse, impianti energetici, quartieri di edilizia pubblica, paesaggi della modernità italiana segnati da fratture fisiche e sociali.
Nel progetto Reload il termine “rotto” non è una provocazione retorica, ma una categoria di analisi. I contesti studiati sono territori attraversati da traumi: istituzionali, ambientali, economici, simbolici. Luoghi in cui la presenza di grandi infrastrutture industriali ha prodotto rotture irreversibili nel paesaggio e nella vita delle comunità. È qui che la ricerca prova a spostare lo sguardo, interrogando il patrimonio non come oggetto da preservare, ma come processo capace di generare nuovi valori sociali.
“Lavorare in questi contesti significa innanzitutto ristabilire delle relazioni con le comunità che abitano questi luoghi, cercare di sviluppare quella missione educativa che il patrimonio ha rispetto ai valori dell’abitare e di una cittadinanza democratica: la possibilità di ritornare a dire cos’è che per noi vale, cos’è che per noi è importante. Questo abbiamo essenzialmente tentato di fare” ci racconta Fava.
L’approccio si richiama esplicitamente alla Convenzione di Faro, ampliandone la portata: il patrimonio come costruzione collettiva, come spazio di educazione civica, come strumento per rafforzare una cittadinanza consapevole. Lavorare su territori feriti significa, prima di tutto, ricostruire relazioni. Ascoltare le voci che nel tempo si sono stratificate intorno a quei luoghi, spesso rimaste senza canali di espressione, e riconoscere il valore emotivo, affettivo e simbolico che anche i patrimoni più controversi continuano a generare.
Centrali nucleari ed edilizia pubblica: simboli controversi
Emblematico è il caso della ex centrale nucleare di Latina, uno dei siti analizzati dal progetto. Un luogo carico di conflitti e contraddizioni: promessa di sviluppo e occupazione da un lato, simbolo di rischio e mobilitazione anti-nucleare dall’altro. Eppure, dalle interviste emerge una sorprendente convergenza sul valore che questo sito conserva ancora oggi. Un valore non solo storico o tecnico, ma profondamente identitario, capace di tenere insieme memoria, paesaggio e vissuto quotidiano.
Accanto a Latina, la ricerca guarda anche alla centrale idroelettrica di Nazzano e ai contesti di edilizia pubblica romana, come Vigne Nuove. Spazi che raramente vengono riconosciuti come patrimonio, e che spesso sono percepiti più come problemi che come risorse. “Parlando di Roma è facile parlare del Colosseo e del centro storico, ma in realtà la gran parte del territorio italiano è caratterizzato da discorsi periferici o provinciali, dove il patrimonio effettivamente la maggior parte delle volte non è nemmeno riconosciuto in quanto tale”, spiega Federica Fava, aggiungendo poi che Reload ribalta questa prospettiva, proponendo una lettura che intreccia architettura, urbanistica e arti performative, sempre più riconosciute a livello europeo come fattori determinanti per il benessere urbano.

La metodologia adottata privilegia i processi rispetto ai prodotti. Tavoli di confronto, pratiche di ascolto, esposizioni pubbliche e momenti di restituzione diventano strumenti di ricerca tanto quanto l’analisi spaziale. In questo senso, fare patrimonio significa anche “fare città”, radicando nei territori una dimensione culturale permanente, capace di incidere sul quotidiano e di attivare forme di resilienza territoriale.
La cura del territorio passa dalla conoscenza
Un ruolo centrale è affidato alle esposizioni pubbliche, intese non come semplici momenti di divulgazione, ma come dispositivi di trasformazione. Rendere visibili le storie, le memorie e le contraddizioni di un luogo permette ai cittadini di riconoscersi come protagonisti e di sviluppare un nuovo senso di appartenenza. L’orgoglio che emerge da questi percorsi è uno degli effetti più rilevanti del progetto: la consapevolezza che anche i paesaggi marginali possono essere portatori di bellezza e significato.
Il lavoro di Reload si inserisce inoltre in un dialogo internazionale, confrontandosi con esperienze europee sul patrimonio moderno, dall’edilizia pubblica di Vienna ai siti nucleari del Regno Unito. In questi contesti, il patrimonio “difficile” diventa occasione per affrontare collettivamente questioni complesse, dall’eredità dell’industrializzazione alle sfide dell’Antropocene.
Formazione e ricerca procedono insieme. Studenti e giovani ricercatori sviluppano competenze che vanno oltre la dimensione tecnica: capacità di mediazione, lettura profonda dei territori, connessione tra saperi disciplinari e attori sociali. Un apprendimento che trasforma l’architettura e l’urbanistica in pratiche di cura, capaci di incidere sulle politiche future.
Come emerge dal racconto di Federica Fava, il patrimonio oggi non è più solo ciò che ereditiamo dal passato, ma ciò che scegliamo di riconoscere come valore condiviso. E in questo processo, prendersi cura dei territori significa, in fondo, prendersi cura delle comunità che li abitano.