Oliviero Rainaldi racconta il suo Wojtyla in Piazza dei Cinquecento: tra simbolismo e fede, l’arte pubblica come dialogo con la città.

La statua Conversazioni, omaggio a Giovanni Paolo II, opera di Oliviero Rainaldi realizzata nel 2012, troneggia in Piazza dei Cinquecento, accogliendo col suo abbraccio chi parte e chi arriva nella Capitale. Ormai simbolo – a suo modo – della città, come un novello Malaussène sembra essersi fatta carico del malumore cittadino: è stata criticata, vestita, insultata e (recentemente, come è noto a tutti) presa di mira durante le proteste per la pace e a favore della Palestina.

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Oliviero Rainaldi – che ci ha concesso cortesemente un’intervista – riflette sul valore dell’arte pubblica e di come la percezione collettiva sulla sua statua di Wojtyla si sia trasformata nel tempo. Perché l’arte è sempre messaggio e specchio – suo malgrado – dei tempi che corriamo.

Partiamo dal principio: il rapporto tra la sua statua e il pubblico è sempre stato travagliato, tra apprezzamento e critiche. È naturale che un’opera d’arte diventi parte del dibattito cittadino, anche se acceso? Cosa ne pensa?
«Scorrendo la storiografia delle opere d’arte esposte in luoghi pubblici, si noterà che la maggior parte di queste sono state osteggiate se non aspramente criticate: il David di Michelangelo, la Ronda di Rembrandt, il caffè di notte di Van Gogh (ritenuto a suo tempo il quadro più brutto mai realizzato). Il Guggenheim di New York, appena inaugurato, fu soprannominato il cavatappi. La piazza cittadina non è come il mondo delle gallerie. È un vasto pubblico, dotato di gusti e tendenze variegate e con diritto di parola.

Foto: Shutterstock

La scultura in omaggio a Wojtyla fu per me una grande opportunità a cui seguì una severa scelta: se assecondare ciò che le persone si aspettavano o se realizzare una differente iconografica non conforme ai tipici santini tridimensionali che siamo soliti vedere nelle opere a sfondo religioso. La maggior parte del pubblico si aspettava una rappresentazione sentimentale, un Pontefice trionfante. In realtà ho proposto un Papa con un mantello accogliente e rigonfio di vento/spirito, ritraendolo curvo e malato come nei suoi ultimi anni di vita, con il sorriso contratto del Parkinson, pensando al passo Paolino che dice: È quando sono debole che sono veramente forte».

In merito a quanto accaduto, crede che l’arte possa comunque favorire una riflessione collettiva?
«Direi proprio di sì. Le pubbliche piazze sono per antonomasia il luogo ideale per ogni tipo di provocazione, arte compresa. La differenza non la fa il dove, ma il come».

Tornando alla statua, nel momento della sua realizzazione, che tipo di dialogo voleva instaurare tra l’arte, il Pontefice e la città di Roma?
«Pochi hanno riflettuto sul titolo dell’opera: Conversazioni, omaggio a Giovanni Paolo II. Non c’era la volontà di fare un ritratto realistico, ma di creare un’opportunità attraverso la testimonianza di questo Papa: mettere in campo un paradigma, un esempio di vita, che ha coinvolto il mondo (per questo motivo, Conversazioni) il cui epicentro era Roma. Lo zucchetto, più volgarmente chiamato Papalina, segno distintivo del Vescovo di Roma, è l’unico elemento cattolico che ho inserito nella scultura. Il mantello, o Piviale, era l’abito che veniva indossato nell’antichità dai viaggiatori per affrontare le avversità metereologiche».

E oggi, a distanza di anni, come la vede con quel suo abbraccio proprio fuori da Termini?
«È il ‘caso’ che ha voluto quel luogo, e mi sembra che il destino abbia scelto bene. Ho posizionato la scultura con l’apertura del manto rivolta verso il centro urbano. Accoglie i visitatori, ma ancor più li orienta verso la città con un abbraccio che vuole anche essere in relazione con le persone che la vivono».

Oliviero Rainaldi e il messaggio di Conversazioni, omaggio a Giovanni Paolo II

Quanto accaduto sembra avere più a che fare con la figura di Giovanni Paolo II che con la sua arte: cosa rappresenta invece per lei la figura del Pontefice, allora e oggi?
«Giovanni Paolo II è stato, anche se con qualche difetto, un vero Papa. Ha in ogni caso difeso la dottrina della chiesa e promulgato la pace».

E a proposito della statua, dopo le discussioni iniziali sulla sua estetica, crede che la percezione del pubblico sia cambiata?
«Sono ormai trascorsi oltre 10 anni e devo dire che le polemiche si sono spente. La scultura è divenuta un luogo di riferimento cittadino ed è entrata all’interno delle guide turistiche internazionali».

Al di là dell’episodio specifico, ogni atto di vandalismo verso un’opera pubblica è una forma di dialogo distorto. Cosa pensa che comunichi, in realtà, chi colpisce un’opera d’arte?
«Colpire vandalicamente qualsiasi tipo di opera, che sia una scultura, una poesia o un libro, è un atto che va oltre. Non presuppone nessun tipo di dialogo ed è, sia giuridicamente che eticamente, condannabile».

L’arte, secondo lei, ha ancora la forza di resistere al tempo, agli insulti, agli equivoci? O il suo scopo è proprio interrogare a dispetto delle conseguenze?
«L’arte certamente resiste nel tempo, non tutta ovviamente, sopravvive attraverso un implacabile setaccio che è appunto il tempo. Se resiste è perché continua a mostrarsi enigmatica, ineffabile, creando una imperitura curiosità».

Il suo lavoro è sempre stato fortemente simbolico, più spirituale che figurativo. Come concilia la materia con il concetto di fede, intesa anche come fiducia nell’essere umano?
«Ho sempre tenuto presente un concetto agostiniano: credo per comprendere, comprendo per credere. Le strade della materia e della fede sono profondamente interconnesse, per quanto profondamente diverse. L’amore passa attraverso la carne che, perennemente insoddisfatta, cerca con una certa fatica di trovare questa fiducia nell’essere umano. Un po’ più utopica mi sembra quella verso l’umanità».

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