A Roma per il concerto per la Festa Nazionale della Repubblica di Malta, Joseph Calleja ci parla dell’importanza della cultura oggi.

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Il 17 settembre, nel Pantheon di Roma, si è celebrata la Festa Nazionale della Repubblica di Malta con un concerto di Joseph Calleja. Il tenore – Ambasciatore della Cultura di Malta dal 2012, il primo ad essere insignito – è stato per qualche giorno a Roma e ci ha concesso un’intervista per parlare di musica, cibo e di quanto Malta e l’Italia siano intrinsecamente e storicamente collegate.

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Che effetto fa tornare a Roma?
«Domenica scorsa ho cantato per Re Carlo e ora canto nella città di Re Alberto. Parlo di Alberto Sordi: il mio primo legame con Roma è stato proprio grazie al suo cinema, al suo essere romano DOC, un uomo grande, un attore incredibile. Penso a film come Il Marchese del Grillo di Monicelli. Poi, quando venivo qua da giovane, ovviamente andavo a visitare i monumenti. Roma, con Atene, è il big bang della cultura e civiltà umana. Dovrebbe essere la capitale d’Europa».

C’è anche un po’ di Malta in questo big bang.
«Siamo a 800 km da Malta, che era romana. Era addirittura un municipio: i cittadini romani a Malta potevano votare per il Senato. Quindi il legame è molto grande. Noi maltesi amiamo l’Italia, Roma è la capitale, quindi amiamo Roma».

Un concerto al Pantheon non capita tutti i giorni. Che tipo di live sarà?
«È un anniversario molto importante. Sarà un concerto serio perché siamo in una chiesa, un concerto sacro. I brani sono stupendi, da Bizet a qualche Ave Maria. Sono molto conosciuti e saranno testimonianza per la mia vocalità. È un momento anche di fraternità tra due paesi. Speriamo vada tutto bene».

Quanto l’Italia fa parte anche della tua formazione lirica?
«Ho cominciato il tirocinio della lirica a 20 anni proprio in Italia. Ho fatto concerti al sud, da Catanzaro alla Sicilia, con un maestro italiano. Poi sono stato a Torino, a Genova, Bologna… ho fatto tanto. L’Italia è la fonte: Giuseppe Verdi, Gaetano Donizetti sono tutti nati qui. C’è anche un legame storico: noi maltesi siamo in gran parte discendenti diretti dell’Italia. Il cognome di mia madre, ad esempio, è Bianco: un cognome italiano. Confesso, però, che il vero paradiso per me è la gastronomia italiana. Per il vino forse preferisco quello francese o californiano, ma sul cibo non ho dubbi: assolutamente italiano».

Il cibo italiano però è molto variegato: di cosa proprio non puoi fare a meno?
«È vero, l’Italia è lunga e versatile. La cucina è varia, ma è la più buona del mondo. Anche più a nord ci sono cose che si mangiano solo in Paradiso, oltre che qui. Io ho tanti piatti preferiti italiani. D’inverno andrei su carbonara e gricia. D’estate sulla pasta con le vongole. Ricordo che avevo 20 anni ed ero a Reggio Emilia con un amico. Siamo andati in campagna in mezz’ora di macchina e ci siamo fermati in un’osteria gestita da tre sorelle, senza menu, cucinavano quello che avevano. Fecero una pasta e zucca di cui, dopo 27 anni, posso ancora ricordare il sapore. Mi ha cambiato la vita. Si mangia bene in quella zona».

E il Sud?
«Beh, la pizza! La faccio anche, sono stato a Napoli. Vorrei che Vito Iacopelli venisse a Malta perché è uno dei vostri più grandi ambasciatori».

Torniamo a Malta, un’isola che ha subito tantissime influenze. Eppure, con l’Italia, resta un legame speciale.
«L’isola ha influenze normanne, romane, greche, fenicie… infinite. Gli ultimi sono stati gli inglesi e gli italiani. Non possiamo dimenticare che, fino alla seconda guerra mondiale, la lingua ufficiale a Malta era l’italiano. Si usava nelle corti e in università, poi la guerra ha cambiato le dinamiche, ma l’italiano è rimasto grazie anche alla tv. Io parlo italiano non perché l’ho imparato a scuola, ma per Paolo Bonolis e Bim Bum Bam nel 1980. Avevo due anni e già lo parlavo benissimo. L’influenza italiana resta enorme anche oggi. C’è anche quella inglese per motivi ovvi, perché gli ultimi colonizzatori sono stati i britannici per 200 anni».

E la lirica che ruolo ha per te in questo contesto?
«L’opera francese e italiana sono le mie preferite. La lirica è un dono che ci ha fatto l’Italia, si chiama opera del resto. I grandi maestri e cantanti – da Beniamino Gigli a Luciano Pavarotti – sono i cavalli di battaglia, voci quasi irraggiungibili. Qualunque cantante esercita una grandissima influenza».

Al giorno d’oggi, credi che la cultura e l’approfondimento siano un po’ in crisi?
«Non dico che non ci sia un momento di crisi. Non nella lirica, ma in tutto il mondo della cultura. Quando si deve combattere con lo smartphone, che ha dimezzato il nostro span di attenzione a 40 secondi, non puoi fare niente che valga la pena per arricchire la tua vita. Anche se ci sono tante cose positive nella tecnologia, stiamo soffrendo per la cultura. Non si sta forse investendo globalmente nella cultura, sta diventando l’ultima cosa. E invece è importante, perché non si può non conoscere la propria storia e la propria cultura. È come una foglia su un albero che non sa dove si trova. Bisogna investire».

Una soluzione quindi c’è.
«Bisognerebbe far capire ai nostri bambini, sin da piccoli, l’importanza della cultura in generale. Il nostro avversario è internet, sono i social, gli smartphone che quasi drogano il cervello. Ci sono vari studi che dimostrano come prendere like su Instagram abbia gli stessi effetti di una droga. Io credo che noi genitori, coi nostri bambini, dobbiamo limitare l’esposizione a questi aggeggi. Sono fatti proprio per il cervello intuitivo e le persone, a quell’età, sono spugne. In tenera età questi mezzi possono fare male».

Si perde il senso dell’altro?
«A quell’età è importante dar spazio  all’immaginazione, andare fuori, in bicicletta, ruzzolare. E andare all’opera in questo contesto? Si fa fatica. Devi comprare un biglietto, vestirti e preparati un po’ se vuoi sapere cosa stai andando a vedere. Ovvio che sia più semplice fare swipe».

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