‘Anche in casa si possono provare emozioni forti’, Caterina Filograno: «Donne e chiaroscuri»

Il 12 e 13 dicembre alla Triennale di Milano debutta Anche in casa si possono provare emozioni forti, nuova creazione scenica di Caterina Filograno, autrice, attrice e regista formatasi alla Scuola Luca Ronconi del Piccolo Teatro. Un lavoro nato da quattro anni di scrittura, riscrittura e vita vissuta: al centro c’è una villa in Puglia che diventa insieme luogo reale e paesaggio mentale, abitata da tre generazioni di donne che si muovono tra memoria, ferite, ironia, desideri e paure.

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È un lavoro che affronta senza sconti il tema del matriarcato, delle genealogie femminili, dell’eredità emotiva e culturale che le donne si portano addosso, spesso senza volerlo. La casa diventa un territorio simbolico dove il patriarcato si è sedimentato, ma è passato attraverso corpi, scelte e contraddizioni femminili: non ci sono sante né mostri, solo figure complesse, piene di chiaroscuri.

A dare forma visiva a questo universo è lo stilista Giuseppe Di Morabito, che firma scene e costumi portando per la prima volta il suo immaginario nel teatro: camicie da notte reinventate, abiti barocchi, tute di perline, piume di struzzo e teli di raso mossi da ventilatori trasformano la villa in un sogno sospeso tra Chekhov, Lynch e Versailles. La produzione è di Sardegna Teatro, Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale e Teatri di Bari.

Ne abbiamo parlato con Caterina Filograno.

Anche in casa si possono provare emozioni forti: il matriarcato come eredità emotiva

Questo spettacolo nasce da una genealogia molto personale. Da dove sei partita?
«Ho iniziato a scrivere il copione quattro anni fa, guardando mia nonna invecchiare. È la persona della mia vita alla quale sono più legata, un personaggio affascinante proprio perché è complesso nella sua bontà e nella sua cattiveria. È una vera matriarca del Sud e volevo, banalmente, cristallizzare la sua memoria. Da lì il testo si è espanso al racconto di tutte le donne della mia famiglia, perché la mia è una famiglia un po’ matriarcale.

Io scherzando dico sempre: se non avessi mai visto un TG o non fossi mai uscita dalla porta della mia villa in Puglia, penserei che il mondo è governato dalle donne e che gli uomini servono solo alla procreazione, perché è un po’ così che mi è stato insegnato. Anche alle volte in negativo, con l’idea che fossimo una razza superiore. Non alla Netflix, con tutti i relativi paradossi, però è stato un po’ così».

Nel processo di scrittura la tua vita è entrata in maniera molto diretta nel testo. In che modo lo ha trasformato?
«Il copione l’avrò riscritto settanta volte. Nel frattempo mia zia, la sorella minore di mia madre, si è ammalata di tumore e ci ha lasciato. È un testo che ha attraversato tantissimo la mia vita, quindi sono felice che sia anche un modo per omaggiare la memoria di lei, ma senza patetismo e senza buonismo. Io sono molto ironica, molto politicamente scorretta. Uso l’ironia, dice la mia terapeuta, perché è un’arma, non una difesa. È il mio modo di leggere la realtà».

Archetipi, psicologia e genealogie femminili

Non è però una semplice saga familiare: entrano in gioco psicologia, archetipi, ereditarietà…
«Non volevo che fosse solo una saga familiare pura. Un giorno sono incappata nel dizionario di psicologia di Umberto Galimberti: è un libro meraviglioso, enorme, dove trovi temi come cos’è la primogenita, cos’è la madre…. Mi sono innamorata degli archetipi junghiani, del discorso sull’ereditarietà, su come la genetica pesi sulle nostre scelte di vita. La domanda è: quanto riusciamo davvero ad emanciparci dalle nostre madri? Quanto siamo affascinati dai nostri modelli, anche quando li contestiamo? Tutto questo è entrato nello spettacolo».

Femminismo, potere e narrazioni contemporanee

Nel tuo lavoro c’è necessariamente femminismo, ma anche potere e narrazioni cool. Come ti posizioni?
«Nel monologo dico chiaramente: ci tengo a precisare che il mio non è femminismo, ma volontà di ottenere una descrizione fedele della mia storia familiare. Non è propaganda solo in quanto cool, è la mia vita. Poi è chiaro che la provocazione nei fatti è femminista, ma cosa vuol dire oggi essere femministi? Ho paura di tutto questo mondo degli asterischi, dell’inclusivo che è molto esclusivo e molto superficiale, a volte. E soprattutto mi fa impazzire l’idea che esistano i buoni e i cattivi per categorie: non è che tutti i gay sono buoni e tutti i maschi etero sono cattivi, non siamo in una serie Netflix di serie C.

Le dinamiche di potere e di violenza, a un certo punto, prescindono dal genere. E poi diciamolo: le persone che mi hanno fatto più sgambetti e che hanno messo in giro voci sono donne. Il problema è che noi perpetuiamo il patriarcato. Non possiamo più usare solo la scusa del siamo insicure, siamo vittime. C’è anche tanta invidia, e bisogna iniziare a nominarla».

Le donne in scena: madri, figlie, sorelle

Chi sono le donne che abitano la scena? Come hai costruito i personaggi?
«È una genealogia: sono donne che rappresentano anche degli archetipi. Mia nonna è la grande madre, la grande matriarca. A tratti sembra un personaggio uscito da un romanzo di Balzac: può essere molto perfida, contiene tutti i paradossi del patriarcato. Lei apre lo spettacolo parlando del fatto che vorrebbe che io avessi un marito e dei figli, perché per lei – come per mia madre – finché non fai i figli non sei davvero realizzata.

Poi c’è la secondogenita, mia zia che non c’è più. Nello spettacolo è la figlia sacrificata del Sud, che rinuncia a un amore con cui sarebbe scappata per fare da bastone della vecchiaia alla nonna. È un po’ la custode del giardino, molto controllante: Giuseppe le ha dato questo costume un po’ ottocentesco da apicoltrice, con i guanti, molto strana.

La figura di mia madre è criptica. Io la chiamo un po’ una figura anti-meloniana: a un certo punto inizia a ballare su Chanson egocentrique di Battiato, quasi come se non avesse figlie. È molto sexy, molto libera. Mia madre vera, che è magistrato, quando ha visto lo spettacolo ha detto: Ma chissà Caterina come mi vede, come una farfalla così libera….

Poi ci sono io, che sto a metà tra Dorothy del Mago di Oz, Isabella Rossellini in Green Porno e Lady Gaga in Mayhem. Nel mio delirio di onnipotenza entro in questo sogno di fare un grande spettacolo con i personaggi della mia famiglia… e a un certo punto arriva mia sorella a rompere tutto».

La sorella è il personaggio più giovane e porta uno sguardo diverso. Che ruolo ha?
«Mia sorella, nello spettacolo, porta il pensiero più politico. Fa tutto un pezzo sulla normalità, su cosa voglia dire essere normali. Lei si sente diversissima da questa manica di pazze che sembrano uscite da una clinica psichiatrica di lusso, che è la nostra villa.

Ho voluto apposta un’attrice di 25 anni, super giovane, perché portasse con candore la violenza e la rottura del sistema. Entra con questa tuta fatta tutta di perline che pesa 60 chili, una follia. Le ho chiesto di ispirarsi ad Angelina Jolie in Ragazze interrotte e al protagonista di Arancia meccanica: quei mondi di grande violenza della giovinezza. Il suo ruolo è difficilissimo, perché è la brutalità della realtà che irrompe nel sogno».

C’è una battuta che racchiude il cuore emotivo dello spettacolo?
«C’è uno scambio tra me e mia madre che per me, sì, è il cuore dello spettacolo. Io le dico: Mamma, io voglio amare gli uomini. Lei risponde: Non si può. Dico: Io non voglio diventare come te. E lei: Tu sei già come me. Dentro questo c’è tutto: l’imprinting, il desiderio di emancipazione, il fascino che continua a esercitare quel pensiero di supremazia della donna. È spaventoso e seducente allo stesso tempo».

Eros, corpo e desiderio femminile

Parli molto anche di eros, di corpi, di desiderio femminile. In che modo entra in scena?
«Io definisco questo spettacolo erotico nel senso che racconto donne sexy, donne che non hanno paura di mostrarsi in modi diversi. È una cosa che secondo me si sta perdendo molto. La linea della sexitudine è un po’ mia, di mia madre e di mia nonna. Mi interessa far vedere che puoi essere complessa, contraddittoria, e comunque profondamente erotica».

Scene e costumi: l’immaginario di Giuseppe Di Morabito

Parliamo dell’estetica: come avete costruito scena e costumi con Giuseppe Di Morabito?
«Io e Giuseppe abbiamo un immaginario molto simile: siamo fan di Sofia Coppola, de La favorita di Lanthimos, di Barry Lyndon, di Fellini – c’è tantissimo di Giulietta degli spiriti – e di Lynch, a cui dedichiamo un omaggio al rosso, all’inconscio.

La prima immagine da cui siamo partiti è quella delle camicie da notte nella villa: ho ancora le camicie da notte delle mie bisnonne, con le iniziali, e gli ho detto partiamo da qui ma reinventiamo tutto. Giuseppe ama il mondo di Versailles, la scomodità barocca. Lavora con costumi che ti aspetteresti più nella lirica, ma che restano agibili per il lavoro fisico che faccio in scena.

Mia nonna, ad esempio, è un uccello: la villa è stata colonizzata dai pappagalli, quindi lei è tutta piume di struzzo, una grande gorgiera, davvero matriarca. Le dico sempre: pensati gazza ladra che sta per essere predata dai pappagalli, e alla fine diventi un pulcino, a piedi scalzi. Mia sorella ha questa tuta completamente di perline – cita la tuta di Swarovski che aveva Lisa in The White Lotus – mentre mia madre indossa un abito in pizzo. Mia zia, invece, sembra uscita dalla pubblicità dei Ferrero Rocher col cappello enorme. Siamo folli».

La scenografia invece è minimale, ma molto lavorata sul simbolo. Perché la scelta dei teli?
«Io vado al minimo sulla scenografia perché il mio artista di riferimento è Francis Bacon: immagini nel vuoto. Mi interessa quel tipo di gioco con la realtà. Abbiamo passato mesi a chiederci come trasformare la villa in un luogo mentale, e alla fine siamo arrivati ai teli.

Ci sono le lenzuola nella veranda tra gli agrumi, i vetri sottilissimi che mia nonna dice sempre fatti dai vetrai napoletani ai tempi della corte borbonica, i teli che cadono durante lo spettacolo, si accumulano e creano un labirinto. Diventano alberi, totem, monoliti, memoria che si accumula.

Lavoriamo solo con teli e ventilatori: i ventilatori muovono i teli e arrivano tramontana, maestrale, il tempo che passa. Il mio sound designer ha creato un paesaggio sonoro che è quasi un prologo geologico, come se anticipasse di ere quel villino che poi appare. È un lavoro molto artigianale: corpi, luci, materiali semplici. Non video, non scorciatoie».

Teatro, memoria e tradizione

Che rapporto ha lo spettacolo con la tradizione teatrale? Hai citato più volte Čechov.
«Un critico mi ha detto che c’è moltissimo del Giardino dei ciliegi, e ha ragione. A un certo punto mi chiedo: Di questo villino, dopo che per anni sono stata figlia, riuscirò a diventare madre?.

La villa dei miei avi, costruita ai primi del Novecento, è un luogo rimasto sospeso nel tempo: niente aspirapolvere, niente tecnologia, stanze con i giocattoli degli anni Trenta. Io scherzando dico: noi siamo il tramonto borbonico. C’è tutto il tema dell’eredità, del peso e della responsabilità di un luogo così, specialmente se sei una donna sola ad abitarlo».

Questo spettacolo sembra l’inizio di un percorso più ampio. Stai lavorando anche ad altre forme di racconto?
«Sì, sto lavorando parallelamente a un romanzo e al trattamento cinematografico di questa storia. È un progetto che va avanti da anni e che immagino come qualcosa che possa vivere in più linguaggi. Però il teatro resta la prima cosa da cui parto, la materia che mi è più vicina, più immediata. È il luogo dove questo mondo ha preso forma per la prima volta, attraverso i corpi, la voce, la presenza».

Foto Valeria Masu via Ufficio Stampa