L’Acquedotto Vergine, un patrimonio invisibile che continua a scorrere

È l’unico acquedotto dell’antica Roma a non aver mai smesso di funzionare. Dalla sua attivazione nel 19 a.C., sotto Marco Agrippa, fino all’acqua che oggi alimenta la Fontana di Trevi, l’Acquedotto Vergine attraversa la città ininterrottamente, quasi sempre sottoterra, silenzioso e invisibile. Ed è proprio questa invisibilità il cuore del progetto di ricerca presentato da Francesca Mari, assegnista del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università Roma Tre.

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Il progetto, inserito nel programma CHANGES, indaga la riscoperta e il restauro dell’Acquedotto Vergine nel Rinascimento, mettendo in luce come lo studio umanistico dell’antico abbia avuto conseguenze concrete sullo sviluppo urbano, artistico e culturale di Roma. A rendere l’Acquavirgo un caso unico è la sua struttura prevalentemente sotterranea: una caratteristica che ne ha garantito la continuità nei secoli, ma che al tempo stesso ha favorito la perdita di consapevolezza del suo tracciato e delle sue sorgenti.

Francesca Mari, assegnista del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università Roma Tre

Tra Medioevo ed età moderna, l’acquedotto continuava a portare acqua in città, ma in quantità sempre minori. Il motivo era semplice e paradossale: nessuno sapeva più con precisione da dove provenisse. È nel Quattrocento e soprattutto nel Cinquecento che questa dimenticanza viene affrontata sistematicamente, grazie a un nuovo approccio allo studio dell’antichità che unisce filologia, ricerca archivistica e ricognizione diretta sul territorio.

Acquedotto Vergine, una storia affascinante

Un passaggio decisivo è la riscoperta, nel 1429, del De aquaeductu di Frontino, testo fondamentale per la conoscenza degli acquedotti romani. «Questo manoscritto – spiega Mari – è ancora oggi la nostra fonte più importante sugli acquedotti. La sua riscoperta comporta anche uno studio da parte degli umanisti e la necessità, a un certo punto, di pubblicarlo. Questo avviene alla fine del Quattrocento, in coda all’edizione di Vitruvio. Nel corso del Cinquecento poi, gli eredi di questi umanisti si rendono conto di quanto fosse importante lo studio delle antichità attraverso un parallelo rapporto tra lo studio del manoscritto e la ricognizione diretta sul terreno. Tra il 1535 e il 1570 si susseguono tentativi di restauro, fino all’intervento definitivo sotto il pontificato di Pio V».

Il ripristino dell’Acquedotto Vergine non è solo un’operazione tecnica, ma ha un impatto profondo sulla forma della città. L’acqua torna a scorrere con forza e diventa motore di un vasto programma decorativo: fontane, ninfei, giardini. Da questo processo nasce la Roma delle acque che ancora oggi conosciamo, con la Fontana di Trevi come terminale simbolico di un’infrastruttura antichissima.

Acquedotto e scelte insediative

La ricerca mostra come già prima del restauro definitivo l’interesse per l’Acquedotto Vergine avesse influenzato le scelte insediative di papi, cardinali e umanisti. Ville e residenze sorgono lungo il suo tracciato: Villa Trivulzio presso le sorgenti di Salone, Villa Giulia con il suo celebre ninfeo, Villa Medici al Pincio. In questi luoghi, l’acqua non è solo risorsa funzionale, ma elemento identitario e culturale, capace di orientare l’architettura e il paesaggio.

Un capitolo particolarmente emblematico riguarda il tratto di acquedotto ancora visibile in via del Nazareno, uno dei pochissimi punti in cui l’Acquavirgo emerge all’aperto nel tessuto urbano. Qui sorgeva il casino dell’umanista Angelo Colocci, centro di un vivace ambiente intellettuale nel primo Cinquecento. Distrutto nell’Ottocento per l’apertura di via del Tritone, rappresenta uno degli esempi più drastici di come i cambiamenti urbanistici abbiano inciso sulla percezione e sulla conservazione di questo patrimonio.

Una mappa digitale online che segue l’Acquedotto Vergine

Il progetto non si limita alla ricostruzione storica. Uno degli obiettivi principali è restituire al pubblico la consapevolezza di un’infrastruttura ancora attiva e presente. Per questo è in fase di realizzazione una mappa digitale online, che renderà visibile l’intero percorso dell’acquedotto, indicando i punti di emergenza, le fontane alimentate dall’Acquavirgo e i luoghi storici ad esso collegati. Un modo per attraversare Roma seguendo un filo d’acqua che unisce periferia e centro.

Accanto agli strumenti digitali, la ricerca punta fortemente sulla divulgazione: una guida breve, contenuti visivi e la possibilità di sviluppare un podcast dedicato, per raccontare una storia complessa in forme accessibili. Centrale è anche il lavoro con le comunità patrimoniali, come quelle di Pietralata e Vigna Mangani, territori in cui l’acquedotto emerge ma resta spesso non riconosciuto. Qui la conoscenza diventa strumento di tutela e appropriazione consapevole del patrimonio.

Come sottolinea Francesca Mari, non si può proteggere ciò che non si conosce. La ricerca, in questo senso, è il primo atto di cura. E il caso dell’Acquedotto Vergine dimostra come la storia dell’arte e gli studi umanistici non siano discipline astratte, ma pratiche vive, capaci di incidere sul presente, di dialogare con il territorio e di rendere visibile ciò che, da duemila anni, continua a scorrere sotto i nostri piedi.