Si intitola ‘Mediterraneo’ il nuovo album di Bresh, un progetto musicale ma anche visivo che mette al centro l’introspezione come viaggio, ritorno e poesia. L’incontro con l’artista.

È il 6 giugno la data in cui Bresh ‘salpa’ verso il suo ‘Mediterraneo’, titolo del suo nuovo attesissimo album che completa una trilogia iniziata con ‘Che io mi aiuti’ e proseguita con ‘Oro Blu’ (doppio platino). Pochi giri di parole, risposte brevi e dirette, Andrea Brasi si immerge completamente in quello che è il suo elemento naturale. E porta con sé l’ascoltatore in un immaginario visivo e poetico profondamente legato al mare, alla Liguria e al viaggio, in senso reale ma anche come metafore di vita.
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Per questo, ‘salpare’, ‘immergersi’, ‘navigare’ sono i verbi che meglio raccontano un lavoro la sua trama si snoda in sedici tracce supportate da un concept grafico a lungo pensato. Colori pieni, tagli suggestivi e a volte drammatici, potenti e plastici sono la rappresentazione di un percorso interiore ed esteriore nel quale l’acqua, simbolo di vita e movimento, si intreccia con la ricerca di equilibrio tra alta e bassa marea emotiva.
Biglietto da visita di questa rotta nel ‘Mediterraneo’ occidentale è l’artwork curato da Marco Giacobbe e Matteo Bonato con le foto di Sam Gregg. Ogni scatto che accompagna l’album riflette il legame viscerale con il mare attraverso un’estetica che richiama il sale sulle rocce, il vento del promontorio ligure e la luce del mare nostrum. Si aggiunge anche il trailer girato a Tenerife lo scorso mese di dicembre, per la regia di Emanuele Cantò, con musiche di Shune, Michele Bargiggia e Rocco Biazzi, e la produzione esecutiva di Giulia Burti.

Un percorso visivo che cattura l’essenza del progetto: un galleggiare spensierato tra evasione e realtà, con il mare come orizzonte costante. Itinerario e meta stessa del suo movimento, il viaggio diventa un’onda che parte e ritorna, allontana e riporta a casa.
Le parole di Bresh
Ci racconti il tema di ‘Mediterraneo’ e il significato del trailer che ha introdotto visivamente, e non solo, questo lavoro?
‘Mediterraneo’ chiude una trilogia di album iniziata con ‘Che io mi aiuti’ e proseguita con ‘Oro Blu’, dove l’elemento centrale è sempre stato l’acqua, in particolare il mare. Ho voluto dare a questo disco il nome del mio mare preferito, il Mediterraneo, che per me rappresenta casa. Il trailer, girato a dicembre a Tenerife, non nel Mediterraneo ma nell’oceano, voleva trasmettere un’immagine leggera e spensierata, come galleggiare tra evasione e realtà. È stato divertente: mi sono buttato in acqua, con l’adrenalina di un bambino, mentre la troupe soffriva il mal di mare! È stato un momento di libertà, ma anche un modo per restare ancorati alla realtà.
Il mare e il Mediterraneo sono appunto ricorrenti nella tua musica e nel tuo immaginario. Se dovessi descriverli con una polaroid, quali simboli sceglieresti?
Sceglierei tre immagini. Intanto, la collinetta del film Mediterraneo, con il vento e il sale sulle foglie, che mi trasmette serenità. Poi, la casa di Pablo Neruda ne Il Postino di Troisi, con i suoi sapori e rumori. E, infine, casa mia a Genova, con la vista sul monte di Portofino. C’è sempre una quota di nostalgia in queste immagini, ma è una nostalgia adrenalinica, piacevole, che mi spinge a creare.
E con la solitudine, invece, che rapporto hai? Ne parli un po’ nella traccia Popolo della Notte. Come la vivi?
La solitudine cerco di tramutarla in poesia. Popolo della Notte parla di anime sole che, in una notte buia, non sanno di essere connesse. È come fermarsi, guardare in aria e sentirsi uniti agli altri, anche senza vederli. Scrivo anche per rendere poetici i momenti “down”, per non implodere ma trasformare il buio in qualcosa di bello. È un modo per non sentirsi mai davvero soli.

Nel brano Altezza Cielo, invece, sembri evocare un’entità superiore, quasi il destino. Puoi spiegarci meglio?
Altezza Cielo parla di un’entità che sa tutto, conosce i nostri errori ma non dà spiegazioni, come un “signor destino” che osserva e lascia che sbagliamo per imparare. Non ha una connotazione religiosa, ma è un’immagine spirituale e al tempo stesso razionale. È come se mi chiedessi: “Rispondi ad altezza uomo o ad altezza cielo?”. Io scelgo il cielo, perché non saprei da dove mirare. È un invito a riflettere su cosa ci sovrasta, senza pretendere risposte definitive.
Il concetto di ritorno, che riporta all’Odissea, emerge spesso nel disco. È un ritorno che non si compie mai?
Nei miei primi dischi c’era sempre questa tensione tra partire e tornare, tra restare nel proprio luogo di nascita o inseguire l’avventura. In ‘Mediterraneo’ ho capito che non c’è bianco o nero, ma sfumature di grigio. Si può convivere con entrambe le emozioni: il piacere di partire e quello di tornare a casa, senza che uno escluda l’altro. È giusto ripartire, riscappare, senza lasciarsi imprigionare. Questo equilibrio è una delle scoperte più importanti di questo album.
Album in cui canti in genovese, come hai fatto a Sanremo.
La canzone in genovese, Aia che tia, l’ho scritta mesi prima di Sanremo, era già nel mio Dropbox. Sanremo è stata una sorta di Mission Impossible che mi ha confermato quanto le cose originali possano creare buone vibrazioni. Per me, cantare in genovese è stato naturale, un modo per connettermi alla mia terra. Genova, con il suo promontorio di Portofino e il monte di Levante, è sempre stata una fonte d’ispirazione, una cartolina che porto nel cuore.
Hai parlato di trilogia: se ripensi al percorso artistico e ai tuoi album, come ti senti cambiato? E Sanremo ha segnato una svolta?
Dopo ‘Oro Blu’ è cambiato tanto: avevo più soldi, una nuova casa, una nuova macchina, non vivevo più con i miei amici. Ero cresciuto, e questo mi spaventava. Avevo paura di perdere l’ispirazione, di “depersonalizzarmi”. Anche per questo ho ritardato la scrittura di ‘Mediterraneo’. Sanremo certamente mi ha fatto conoscere a un pubblico più ampio, come “la zia e la nonna”, ma non credo che quella fanbase sia lo zoccolo duro. Con questo album voglio dimostrare che sono sempre lo stesso, che la sfida di restare autentico è ancora viva. Non ci sono grandi canzoni d’amore in ‘Mediterraneo’, ma un ritorno ai temi che ho sempre voluto trasmettere.
In questo disco, come se volessi riannodare i fili, hai raccolto anche diversi singoli usciti negli anni scorsi.
Non volevo che rimanessero brani sparsi sul web. Per me l’album è un identikit dettagliato, non un semplice singolo. Torcida o Guasto d’amore avevano bisogno di un supporto fisico, di un oggetto che raccontasse una storia completa. Spero che chi lo ascolta percepisca questa profondità, un’autoriflessione che dia speranza. Io la chiamo hope music: non è cantautorato, non è rap, è un mix di tutto ciò che amo. Con l’obiettivo di migliorare la giornata di chi ascolta.

Parliamo delle collaborazioni: come hai scelto gli artisti coinvolti?
Ho scelto quattro nomi che rappresentano qualcosa di speciale, legati da un filo conduttore. Mario è un fratello di una vita, non poteva mancare dopo ‘Oro Blu’. Kid Yugi è, per me, tra le migliori penne in Italia, e abbiamo una stima reciproca; con lui abbiamo affrontato un tema non scontato. Poi c’è Sayf, un astro nascente del Levante ligure che conosco da quando era piccolo; sono felice di averlo con me. Infine Achille Lauro, un mentore fin dai suoi primi dischi, con cui ho un legame umano fortissimo. Sono collaborazioni di cuore, non solo musicali.
E del tour cosa puoi raccontare?
Non vedo l’ora di tornare sul palco. Sono tre anni che non pubblico un disco e due che non faccio live. Il tour nei palazzetti sta andando benissimo: il secondo Forum di Milano è quasi sold out, Roma è all’80% di capienza, così come Jesolo e Bologna. Purtroppo, abbiamo dovuto annullare alcune date estive perché l’uscita tardiva del disco non ci ha permesso di preparare uno show adeguato. Mi dispiace davvero, chiedo scusa ai fan con il cuore in mano, ma ora siamo concentrati sui palazzetti. Siamo contenti così e vogliamo ripartire da lì.
Nell’album, e in generale nel tuo repertorio, ci sono canzoni profonde ma anche brani più leggeri. È più difficile essere profondi o spensierati?
Diciamo che nei momenti più bui, essere profondi viene naturale, perché segui il flusso di quel periodo. Nei momenti leggeri, invece, la testa vola più in alto, e anche quelle canzoni hanno il loro valore. Non le considero superficiali, perché la musica leggera è bella. Basta seguire la stagione, il momento, e lasciare che la creatività si esprima.
Se dovessi scegliere una frase come mantra, quale sarebbe in questo momento della tua vita?
Cito la frase di Einstein che mia madre fece scrivere sopra il bancone del bar nel 2017: “È meglio essere positivi e avere torto che essere negativi e avere ragione”. All’inizio non la capivo, ma ora sì: la positività, il saper galleggiare anche nei momenti difficili, è il mio mantra. È quello che cerco di trasmettere con la mia musica, dando speranza e leggerezza, anche quando tutto sembra andare storto.
Immagini da Ufficio Stampa