È uscito – per Moscabianca Edizioni – ‘Il maestro dell’orrore. Nella mente di Junji Itō’ di Gioele Cima. La nostra intervista.

Per Moscabianca Edizioni, è uscito Il maestro dell’orrore. Nella mente di Junji Itō di Gioele Cima. Un volume che ci trasporta nella sterminata produzione di Junji Itō, il maestro assoluto del manga horror. Gioele Cima viaggia appunto nella mente del Maestro, analizzandone il tratto – sia artistico che narrativo – che l’ha reso così unico. Il maestro dell’orrore. Nella mente di Junji Itō finisce tuttavia per essere un’analisi su come gli esseri umani affrontano orrore e terrore. Ce lo siamo fatti raccontare proprio da Gioele Cima.

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Il maestro dell’orrore. Nella mente di Junji Itō: intervista a Gioele Cima

Vorrei partire dal principio: come e quando ti sei imbattuto in Junji Itō e nelle sue opere e qual è stato, al di là del libro, il tuo rapporto con l’arte del Maestro?
«È cominciato tutto con Uzumaki, il manga delle spirali, una decina di anni fa. Avevo letto alcune cose e ne ero rimasto comprensibilmente folgorato (Homunculus di Yamamoto, Monster di Urasawa, e ovviamente Berserk), ma non ero ancora un divoratore seriale di manga come lo sono ora.

Se decidevo di leggere qualcosa era perché la trovavo interessante, a prescindere dal medium. E difatti sono arrivato a Uzumaki per lo stesso motivo: hai presente quegli elenchi di materiale (dischi, libri, film, serie tv) che bisognerebbe ascoltare o leggere almeno una volta nella vita? Ecco, Uzumaki era tra queste. È un’opera che trasmette un’idea estremamente originale, e lo fa nel modo più semplice e diretto possibile. Un classico, in altre parole. Da quel momento Ito è rimasto un punto di riferimento piuttosto fisso, uno di quegli autori di cui hai letto tutto, e di cui ciclicamente rileggi tutto». 

E come nasce il saggio Il Maestro dell’Orrore?
«Mi era stato proposto di scrivere un piccolo saggio su un manga o mangaka a mia scelta. Io principalmente mi occupo di psicoanalisi, e in quel periodo ero al lavoro su un progetto che si sarebbe dovuto chiamare proprio Psicoanalisi dei demoni. L’idea era di usare la psicoanalisi come una sorta di bussola per comprendere il nostro rapporto con l’orrore, nonché con tutte quelle cose bizzarre con cui conviviamo ogni giorno, spesso a nostra insaputa: il nostro corpo, i lapsus, sogni e incubi, i fenomeni di ripetizione, i ricordi di copertura, eccetera. Quel progetto è rimasto nel cassetto – almeno per ora -, la proposta di Moscabianca invece no. Del resto, quale migliore occasione per mettere insieme entrambe le cose?».

Junji Itō: mostri e orrore

Non è un viaggio semplice quello nella mente del Maestro, considerando soprattutto la sua prolificità. Come ti sei approcciato al lavoro? C’erano degli elementi portanti che hai usato come base perché non trascurabili?
«Con Ito mi sono comportato come farei con il lavoro di un filosofo o, in generale, di qualcuno che negli anni è arrivato a costruire un proprio pensiero. E cioè con una sorta di sana ossessione: ho preparato un grande archivio in cui riportare le sinossi dei racconti e quelli che reputavo essere i loro sottotesti. Questo perché, come giustamente fai notare, la carne al fuoco è tanta, e dietro la facciata del mangaka, dell’artista che disegna per guadagnarsi da vivere, c’è l’esigenza di dare voce a un universo interiore estremamente complesso.

Bangkok – Mura immersive con disegni di Junji Itō (Shutterstock)

Tentare di esprimere il pensiero altrui è un’operazione delicata, spesso abusiva, ma nel caso di Ito mi è sembrato di ritrovare alcuni concetti portanti che interessano anche l’indagine psicoanalitica: il perturbante, l’inconscio, la figura del doppio, il difficile rapporto con il prossimo, e non in ultimo il fatto che quel che rimuoviamo dalla coscienza prima o poi ritorna. Insomma, tutto ciò che giace dormiente nella nostra esperienza di ogni giorno, che siamo abituati a dare per scontato, e che però, quando si sveglia, ci punge, facendoci percepire la realtà come meno reale di quanto appaia di solito». 

La mostruosità femminile

Un intero capitolo lo dedichi alla mostruosità femminile e Tomie del resto non ha bisogno di presentazioni. Al di là del parallelismo tra mostruosità e libertà (che trovo molto affascinante), credo sia curioso anche trovare la donna/horror accanto a guerre e mostri. Come mai secondo te il femminile fa così paura?
«È una questione estremamente delicata, soprattutto oggi che molti degli aspetti di una certa cultura di stampo maschiocentrico stanno pian piano venendo meno, e cioè rivelandosi per ciò che sono sempre stati: pregiudizi, forme di confinamento, ingiustizie. Il modo in cui l’essere umano si è approcciato alla femminilità nel corso delle epoche assomiglia per molti aspetti a quello con cui elaboriamo le fobie. Cos’è una fobia? Una paura irrazionale, apparentemente priva di giustificazioni, si dirà.

Bangkok – Tomie (Shutterstock)

Ma una simile spiegazione ci restituisce solo una parte della verità, perché una fobia è, prima di tutto, un modo di elaborare l’angoscia, di localizzare un timore aspecifico all’interno di un oggetto specifico, perché se so cosa temo (o almeno mi illudo di saperlo) allora posso anche provare a controllarlo, o quantomeno a evitarlo. I mostri del passato sono nati esattamente rispondendo a questa esigenza: creature anomale, spaventose, in cui si materializzava la nostra paura dell’ignoto. E difatti, i maestri cartografi del Medioevo li piazzavano nei punti più impervi delle mappe, in corrispondenza di territori non ancora esplorati. Da qui anche l’aspetto politico della faccenda: nel momento in cui deleghiamo il nostro libero arbitrio a qualcun altro (un sovrano, un governo, un sistema ideologico), gli forniamo anche il diritto di dirci di cosa avere paura. Lo deleghiamo a costruire i mostri da cui dovremmo essere protetti.

Mostruoso è ciò che mette in questione l’ordinario, è l’imprevisto, l’altro da me, ciò che non ha garanzie. E difatti tra le nostre paure più ricorrenti sono la morte, il futuro, i terremoti e quant’altro ecceda le leggi che ci diamo. La femminilità è stata per millenni il nome che abbiamo attribuito a questa incognita insondabile, sia perché rappresenta l’eccezione all’ordine costituito, sia perché, un po’ alla volta, ci siamo resi conto che l’unica cosa davvero mostruosa dei mostri è il fatto di crearli… La psicoanalisi, e Ito con essa, ci insegnano che la nostra tendenza a costruire mostri è più spaventosa di qualsiasi creatura concepibile. E ci invitano a prenderci la responsabilità di ciò che creiamo. La distinzione che faccio nel libro tra la donna non abbastanza donna e la donna troppo donna ne è un esempio». 

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Consigli sulle opere del Maestro Junji Itō

Il tuo volume, partendo da Junji Itō, è in realtà una dissertazione molto profonda sul fascino che l’orrore esercita sul genere umano. Secondo te, perché in questo Junji Itō è un Maestro (più di altri)?
«Perché, parafrasando quanto Emmanuel Carrère scriveva di Philip K. Dick, la verità dell’orrore sembra chissà quanto intricata, ma in realtà è compatta e stupida come la pietra. Con le sue storie semplici, quasi ossificate, Ito riesce a restituirci l’idea che è il modo in cui sublimiamo l’orrore a essere artificioso, mentre invece la sua esperienza è estremamente ovvia. Così ovvia che, quando ci assale, non corriamo mai il rischio di confonderla con altro.

L’orrore non ci inganna, perché nel momento in cui si impossessa di noi lo fa in modo irrevocabile. È la nostra esigenza di raccontarlo, di ammansirlo o di renderne ragione, semmai, a richiedere una certa complessità. Le cose più semplici, proprio perché tali, sono anche le più ardue da spiegare, no?».

Se dovessi consigliare tre opere di Junji Itō a chi non ha mai letto nulla del Maestro, quali consiglieresti?
«Faccio dei nomi meno noti, tanto per non ripetere sempre gli stessi titoli. Nella valle degli specchi, Il disco usato e La villa delle marionette. Sono tre storie piuttosto agghiaccianti a mio parere, ma anche tre modi diversi con cui il Maestro dimostra che mostrificare l’altro sortisce sempre un effetto boomerang, come dire: l’orrore che proietti sugli altri, prima o poi, ti torna indietro». 

La forza di Uzumaki

In quale opera di Junji Itō, invece, ritieni che sia condensata tutta la sua maestria nel dipingere l’orrore?
«Dal punto di vista estetico-concettuale Uzumaki. È un’opera matura, quasi ossessiva, in cui la complessità del tratto si lega in modo estremamente efficace alla capacità di manipolare le singole trame che la compongono pressoché all’infinito. Ito parte da un’idea semplicissima (nella città di Kurouzu iniziano a spuntare spirali) e la sviluppa fino a farne un delirio apocalittico, un manga che turba sia per come è scritto e sia per come è disegnato. E il cui messaggio, inquietantissimo, è quanto mai attuale: ci abituiamo a tutto, anche quando questo tutto ci divora lentamente.

San Diego (Shutterstock)

Chomsky diceva che se metti una rana in una pentola e alzi pian piano la temperatura, questa finisce per cuocersi, perché si adatta al progressivo aumento di calore. Anzi, ne è persino felice, il tepore del fuoco la fa sentire bene. Solo che sta morendo, e non lo sa. Oggi, e Uzumaki lo ha previsto bene, la differenza è che la rana non è ignara, sa benissimo che la temperatura sta aumentando e finirà per bollire, eppure non salta. Aspetta, augurandosi che le cose si sistemino da sole…».

Esaminare il lato oscuro per gettare una luce

Da scrittore e autore, scandagli il lato oscuro delle sensazioni umane gettando una luce su di esse. Mi riferisco anche ai tuoi saggi precedenti: cosa ti ha spinto verso questa direzione?
«Credo che tentare di fare luce sull’oscurità sia un atto prima di tutto etico. Capiamoci, non si tratta di voler rendere noto l’ignoto a tutti i costi, di bonificare le tenebre per trarne un vantaggio di qualche tipo. È un’operazione sospetta, che il più delle volte degenera nella violenza. Si tratta piuttosto, come la psicoanalisi ci insegna, di ravvivare la nostra responsabilità nei confronti di ciò che accade intorno a noi. E, soprattutto, di provare a smetterla di dare la colpa ai mostri. Perché, come dico nel libro, alla fine la verità più difficile da digerire è proprio che i mostri non esistono». 

Horror e Giappone

Un peso rilevante in ciò che spieghi è dato anche dalla cultura nipponica, che vive l’horror (e in generale i tabù) in modo differente rispetto all’Occidente. Secondo te questo quanto influisce sulla valorizzazione dell’horror (o semplicemente cambiano i media ma non il loro effetto)?
«L’horror di per sé è un genere come lo sono lo sci-fi, il thriller, il noir e così via. Eppure, rispetto agli altri, ha un vantaggio: riesce a dire ciò che, altrimenti, non potrebbe essere detto in nessun modo. David Cronenberg, che con le sue storie ha fatto andare di traverso la cena a più di qualche generazione, adotta un punto di vista estremamente interessante al riguardo, che credo colga nel segno: un buon horror è tale quando la sua storia reggerebbe anche senza il ricorso a elementi sovrannaturali. La differenza è che, togliendo il mostro, queste storie risulterebbero improponibili.

Troppo crude o disperate per essere narrate senza il ricorso a una certa grammatica di genere. Da qui il seducente paradosso: i mostri non servono solo a nutrire l’orrore, a volte lo attutiscono, ci rendono più sopportabili situazioni reali rendendole irreali. E infatti cosa diciamo ai bambini quando rimangono spaventati da certi film? Che è tutto inventato. In Giappone questa dialettica è portata allo stremo, molto più di come è stato fatto qui da noi negli ultimi anni. Pensiamo al modo in cui un capolavoro come Pulse (Kairo) affronta la questione dei suicidi, o a come Go Nagai tratta l’infanticidio in Il terribile shock di Susumu. O al fatto che Hideshi Hino chiami inferno quella che è la semplice realtà di tutti i giorni. O che Ito abbia creato Tomie, la ragazzina immortale, per elaborare un fatto inesorabile e insensato come l’improvvisa morte di un suo compagno di scuola elementare.

Qui, il richiamo al sovrannaturale funge da attenuante, trasforma qualcosa di orrido e reale in opera di finzione. E così facendo lo pone a una distanza accettabile. I film di possessione seguono la stessa falsariga, e non a caso Freud una volta notò che quelle donne che il Medioevo definiva streghe o indemoniate erano in realtà delle isteriche avant la lettre. Oggi forse abbiamo gli strumenti per decretare che molte isteriche erano semplicemente donne a cui era vietata la possibilità di desiderare. Pertanto, sì, cambiano i media, non il loro effetto. Né, soprattutto, il loro fine». 

Il valore dei manga

Un’ultima domanda: spieghi bene anche quanto i disegni di Junji Itō si muovano in sintonia con la narrazione. Così come il ruolo dei manga: credi che come medium il manga abbia in un certo senso favorito anche la diffusione dell’horror?
«In Giappone i manga hanno la stessa valenza che hanno qui da noi i romanzi. Ne esistono alcuni di puro consumo e altri che hanno pieno valore letterario. Umberto Eco disse che, una notte, gli capitò di rientrare in casa e di trovare il padre appartato dietro il lume di una candela a leggere I miserabili di Hugo: era talmente immerso nella lettura, talmente coinvolto, che le lacrime gli grondavano dagli occhi. Ecco, ci sono dei manga che hanno lo stesso peso dei nostri classici.

Penso a I tre Adolf di Tezuka, o a tutto il potere che un capolavoro come Rocky Joe ha esercitato sulla cultura nipponica, dalla celebre citazione di Yukio Mishima poco prima di commettere il seppuku all’attentato terroristico del 1970, quando un gruppo di ribelli dirottò un Boeing delle Japan Airlines al grido Siamo tutti Rocky Joe.

Nonostante qui da noi manga e anime abbiano raggiunto un ragguardevole successo commerciale, il bilancio rimane secondo me negativo: una sorta di pregiudizio estetico fa sì che, parere degli appassionati a parte, i primi rimangano comunque dei fumetti e i secondi dei cartoni animati. È una barriera culturale che non sono certo riusciremo a lasciarci alle spalle una volta per tutte. Per rispondere più direttamente alla tua domanda, direi che l’horror giapponese (e i suoi trapianti occidentali come The Ring & co.) sia stato sicuramente favorito dalla cultura manga. In terra nipponica molte trasposizioni cinematografiche si basano su opere manga o su codici estetici e narrativi tratti da quest’ultimi. Qui da noi un simile nesso funziona meno.

Nondimeno, l’horror è finalmente tornato a essere un genere autoriale. Penso al recente e meritato successo di registi come Eggers, Aster, Perkins e Fargeat. Al fatto che l’horror sia di nuovo un punto di riferimento importante per dare voce e forma alle nostre angosce collettive. E che si tratti oppure no di manga, di Oriente o di Occidente, di ieri o di oggi, la questione di fondo non cambia: nei periodi in cui l’horror è florido e in salute, anche la nostra coscienza critica se la passa meglio. L’horror è un antidoto contro quello che Jacques Lacan ha battezzato il desiderio di dormire. Un antidoto contro la tendenza a rimanere passivi, stanchi, vulnerabili. È la spinta necessaria a farci saltare fuori dalla pentola prima di finire bolliti, insomma».  

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