Tutto è pronto a Gorizia per l’inaugurazione di DAG – Digital Art Gallery, la nuova galleria d’arte digitale immersiva che trasformerà la Galleria Bombi nel tunnel digitale più grande d’Europa. L’apertura ufficiale è fissata per il 16 dicembre: in quell’occasione il pubblico potrà attraversare per la prima volta Data Tunnel, installazione site-specific di Refik Anadol, tra i nomi più influenti al mondo nell’ambito della digital art.
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Da Palazzo Strozzi a Firenze a The Sphere a Las Vegas, passando per il Guggenheim di Bilbao, Anadol lavora da anni sulla relazione fra architettura, dati, intelligenza artificiale e immaginario collettivo. Per Gorizia – capitale europea della cultura 2025 insieme a Nova Gorica – ha immaginato un’opera che trasforma un passaggio urbano in una scultura di dati tridimensionale, alimentata da uno dei più grandi dataset al mondo dedicati alla natura. In un incontro con la stampa, Refik Anadol ha raccontato l’opera e la sua visione su arte pubblica e IA.
Il significato di Data Tunnel per Gorizia e per l’Italia
«Per me questo progetto è uno dei più ambiziosi, per la scala, per la posizione e per il significato. È anche un momento molto speciale: prendiamo uno spazio fisico importantissimo come la Galleria Bombi e lo trasformiamo in un’opera d’arte. Il mio lavoro si concentra sull’arte pubblica: credo che l’arte sia ancora più potente quando non è chiusa in un museo o in una galleria, ma è ovunque, accessibile a tutti. In questo caso un tunnel diventa una tela.
Non vedo muri, porte e finestre: vedo una superficie su cui possiamo lavorare con luce e dati. L’architettura diventa una forma di scultura. Data Tunnel, in questo senso, è anche un modo per onorare la storia dell’architettura e dei maestri che mi hanno ispirato».
Un nuovo Rinascimento digitale
«Il Rinascimento è una delle mie più grandi fonti di ispirazione. È stato un periodo in cui l’umanità si è sviluppata in modo straordinario, non solo artisticamente ma anche sul piano intellettuale. Oggi, con l’intelligenza artificiale, viviamo qualcosa di paragonabile: è la prima volta che abbiamo una forma di intelligenza nella nostra vita quotidiana, integrata negli strumenti che usiamo.
Come allora la stampa, la scultura, le nuove tecniche cambiarono tutto, oggi software, hardware, sensori e macchine stanno trasformando la percezione della realtà. Io vedo il mio lavoro come un tentativo di non perdere mai la storia ma immaginare sempre il futuro. L’arte che faccio è un dialogo continuo tra gli eroi del passato e le tecnologie del presente».
La costruzione di un dataset naturale senza precedenti
«Il concetto alla base di questo progetto è un database dedicato alla natura, uno dei più grandi modelli al mondo impostati sulla natura. Al World Economic Forum di Davos abbiamo spiegato come raccogliamo i dati: facciamo ricerca in tutto il mondo, andiamo nelle foreste amazzoniche, sui ghiacciai, raccogliamo immagini, suoni, informazioni ambientali. Quando lavoro con i dati, lavoro sempre con il permesso. Abbiamo un team a Los Angeles, circa 20 persone, e spesso utilizziamo anche dati open source, ma sempre in modo responsabile.
Il processo è molto lungo: a volte ci vuole un anno solo per pulire e curare i dati, capire se sono quelli giusti, se possiamo usarli. Non c’è un pulsante magico: non esiste scrivo qualcosa e l’IA mi fa il capolavoro. Dietro c’è una catena di produzione artistica complessa, che include energia sostenibile, infrastrutture tecnologiche e una grande responsabilità etica».
Dati come materiale poetico
«I dati sono qualcosa che non vediamo, ma esistono. Sono la nostra identità, la nostra memoria, i nostri ricordi, le nostre emozioni. Prima di questa tecnologia scrivevamo, ci incontravamo, trascorrevamo tempo solo nel mondo fisico. Dopo la pandemia viviamo anche in uno spazio digitale, connesso, e la società è cambiata.
Se pensiamo ai dati solo come numeri, non abbiamo capito niente. I dati possono diventare tutto, se ci liberiamo da un approccio solo scientifico e li guardiamo come un artista guarda i pigmenti. Il ruolo dell’artista è proprio questo: prendere la memoria del mondo e trasformarla in un linguaggio poetico. Tutti gli artisti del passato hanno cercato di andare oltre la realtà visibile. Io faccio la stessa cosa con i dati. La macchina diventa un amico con cui conversare, un’estensione del nostro immaginario».
Architettura come scultura algoritmica
«Questa è la prima volta che realizzo un progetto in un tunnel di questa scala. L’algoritmo non lavora su uno schermo 2D, ma su uno spazio tridimensionale: 8 metri di larghezza, 7 di altezza, un corridoio che collega due mondi, due culture. L’architettura diventa una scultura di dati. L’AI prende la forma della galleria e la ricostruisce: non è una pittura, non è solo un’immagine, è una scultura tridimensionale generata da milioni di immagini e informazioni.
Mi piace pensare che, se Monet fosse vivo oggi, forse dipingerebbe la natura con sensori e algoritmi, osservando il cambiamento della luce e del meteo in tempo reale. In Data Tunnel i dati meteorologici e ambientali diventano movimenti, colori, trasformazioni nello spazio. Il pubblico non guarda semplicemente un’opera: la attraversa, è dentro la tela».
Il futuro e la collaborazione tra umano e IA
«Credo che il futuro sia umano, non dell’IA. Il futuro è una collaborazione. C’è una grande incomprensione: molti pensano che un artista digiti una frase e accada qualcosa di magico. Non è così. Dietro c’è un team multiculturale – nel mio caso 20 persone da 20 Paesi diversi – che parla molte lingue, lavora sui dati, sui modelli, sulle immagini, per mesi.
La macchina, in realtà, è uno specchio. Se sappiamo chi siamo, lo specchio può restituirci una bella forma. Se non lo sappiamo, la tecnologia lo rivela, e dobbiamo lavorarci. La parte più umana è proprio questa ricerca: inseguire l’umano nel non-umano, trovare emozioni dentro ciò che sembra solo calcolo. E c’è un’altra buona notizia: se qualcosa va storto con l’IA, possiamo usare l’IA per risolverlo. Dipende sempre dalle nostre intenzioni».
Memoria digitale: natura, cultura, architettura
«Paradossalmente, la buona notizia è che le macchine non dimenticano. La domanda è: che cosa stiamo mostrando loro? Che tipo di dati consegniamo a questi specchi? Per me ci sono tre pilastri da preservare: natura, cultura e architettura. Quando ho cominciato a cercare informazioni sulla natura nei sistemi di AI, molte risposte erano sbagliate. C’era poco rispetto per la complessità del mondo naturale.
La politica può essere soggettiva, i dibattiti possono essere soggettivi. La natura no: è lì, ogni giorno. La stessa cosa vale per la cultura e per l’eredità degli artisti: il Rinascimento, Gaudí, Mozart… Se lavoriamo con i loro dati, con le loro opere, abbiamo il dovere di farlo con cura. Nel mio studio cerchiamo sempre di onorare gli eroi dell’arte. Non faccio mai qualcosa di piatto: ogni opera deve ricordare che dietro i dati c’è l’umanità».
Un nuovo spazio gratuito per l’arte digitale in Europa
«È davvero un sogno. Luoghi come questo, nel mondo, sono rarissimi e dovrebbero essere celebrati. Qui città, istituzioni, tecnici, artisti, aziende hanno lavorato insieme per creare una tela a disposizione della comunità. Non penso solo a me: dopo di me spero che tanti altri artisti e creative possano usare questo spazio, sperimentare, spingersi oltre. È un luogo che guarda già al XXII secolo, non solo al XXI. Stiamo entrando in quella che io chiamo una realtà generativa: non è più solo uno schermo o una TV, ma il mondo fisico che si trasforma davanti ai nostri occhi grazie ai dati.
Uno spazio immersivo gratuito come DAG può ridefinire l’accesso all’arte contemporanea: può avvicinare moltissime persone a linguaggi nuovi, a farsi domande, a cercare, a tornare, a studiare. L’arte può diventare un parco giochi, una scuola, una speranza. Se questo tunnel riuscirà a toccare non solo la mente ma anche l’anima delle persone, allora avrà compiuto la sua missione».
Foto di Fabrice Gallina / Ufficio Stampa