Francesco Maria Mancarella e la musica come materia: «L’arte non ha limiti»

Ci sono artisti che dipingono con i colori e altri che lo fanno con i suoni. Francesco Maria Mancarella appartiene a entrambe le categorie. Direttore d’orchestra, pianista e compositore, Mancarella è da tempo riconosciuto a livello internazionale per il suo progetto Il pianoforte che dipinge, con cui la musica si fa immagine e la tela diventa una partitura emotiva. Con il nuovo album ‘What I Felt’ (Sony Music Italy), questa visione sinestetica trova una nuova maturità in un viaggio sonoro che fonde materia e sentimento.

Il maestro presenterà per la prima volta dal vivo l’ultimo disco con due appuntamenti speciali del tour What I Felt Live 2025. Sarà, infatti, il 16 novembre al Teatro Franco Parenti di Milano, all’interno della rassegna The Music Room, e il 21 novembre al Teatro Paisiello di Lecce. Due date che segnano un ritorno importante sul palco, ma anche un dialogo intimo tra musica e pittura, corpo e strumento, gesto e segno.

‘What I Felt’ nasce da un’idea tanto semplice quanto radicale: modificare un pianoforte a coda Kawai applicando feltri di diversa qualità su ogni registro, così da ottenere un suono ovattato, caldo, avvolgente. Il termine inglese felt, infatti, racchiude un doppio significato: feltro, la materia che smorza le vibrazioni delle corde, e to feel, il verbo che in musica conta più di ogni altro, sentire.

What I Felt cover

È da questa ambivalenza che prende forma un linguaggio sonoro personale, un timbro “pittorico” in cui ogni nota diventa pennellata.

‘What I Felt’ è il titolo del tuo ultimo album, che ha come ‘compagno di viaggio’ un pianoforte con feltri speciali. Come sono nati il disco e l’approccio creativo a esso?

«Il disco è nato in un periodo di grande creatività. Ho composto con rapidità, ispirazione, istinto e apertura alla contaminazione. Questo è stato il mio approccio. Tutto il resto è soltanto un mezzo per ottenere quel suono particolare di cui avevo bisogno e di cui sono molto felice».

Il progetto unisce musica e pittura in un’unica performance. Nel momento in cui la musica genera immagine, senti di diventare più un compositore che dipinge o un pittore che suona?

«No, un pittore no… nel modo più assoluto. Ma non mi piace pormi limiti, né nelle cose che posso fare né nelle idee che posso avere. Sono un creativo che, lungo il suo percorso di vita, ha incontrato la musica e cerca di usarla a modo suo: con libertà».

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Il gesto del “preparare” il pianoforte, di modificarlo per ottenere un suono unico, porta con sé un’attitudine artigianale. Come vivi questa dimensione nella tua pratica musicale?

«Ho la sensazione di plasmare il suono e, di conseguenza, gli strumenti che lo generano. Anche se, nell’atto fisico, effettivamente modifico lo strumento, non mi considero un artigiano. Sia chiaro: la musica, nell’accezione moderna, ha ancora molto a che fare con l’artigianato. Sono lontani i tempi in cui per rappresentare il trascendente si utilizzava solo la musica».

Fin dal titolo l’album è costruito attorno al doppio significato di felt: feltro e sentimento. Come si traduce questa dualità nella tua esecuzione dal vivo?

«Ogni concerto mi fa provare emozioni diverse. Non è mai tutto uguale, ed è un bene che sia così. È fondamentale che i sentimenti attraversino l’animo dell’interprete nel momento dell’esecuzione. Adatterò ad ogni concerto i sentimenti che proverò ed i brani vibreranno sempre in modo nuovo, diverso, mai più bello del giorno prima ma mantenendo sempre la verità che mi contraddistingue».

“Il pianoforte che dipinge” ha già conquistato teatri e pubblico in tutto il mondo. Che tipo di reazione ti interessa generare nello spettatore: stupore, contemplazione, o l’idea che la musica possa materializzarsi in qualcosa di tangibile?

«Vorrei che la musica fosse percepita anche come materia, che non restasse solo nell’etere, sfuggente e inafferrabile. La musica può essere qualcosa di concreto: può tradursi in note, ma anche in colori, trasformando le melodie in sentimenti e sensazioni. Vorrei che il pianoforte che dipinge suscitasse nel pubblico lo stupore di poter pensare che le vie dell’immaginazione, del pensiero e dell’arte sono infinite».

Ogni volta la performance regala non solo un’esibizione diversa ma anche un’opera pittorica differente. Quali sono le variabili principali? C’è stato un risultato finale che ti ha particolarmente sorpreso?

«Le variabili dipendono dal brano che scelgo per la pittura. Cambiano i colori, cambia il tempo e la velocità d’esecuzione, cambia lo sfondo… Ogni volta che suono e dipingo, si crea intorno a questo straordinario strumento un momento di religioso silenzio come fossimo tutti insieme in un tempio ad ascoltare il suono del mondo. Uno dei concerti che rimarrà nel mio cuore, è certamente quello del 15 agosto del 2015 al teatro antico di Segesta in un luogo di rara bellezza dove i suoni della natura, si unirono al suono del mio pianoforte ed ai colori della tela».

Nelle tue composizioni si sente una ricerca continua tra classica, jazz ed elettronica. Quanto è importante per te superare i confini dei generi, proprio come fai superando i confini tra suono e immagine?

«È fondamentale per me non avere limiti. È sempre stato così… anche quando era solo uno studente. Fino a quando avrò voglia di scoprire, di migliorare, di essere curioso nei confronti del mondo vorrà dire che quelle barriere per cui ho sempre combattuto saranno lontane del mio mondo interiore».

Immagini da Ufficio Stampa