J. Park, deserto e digitale ad Art D’Égypte: «Nell’imperfezione risiede l’emozione»

Ad Art D’Égypte – dall’11 novembre al Cairo – l’artista coreano J. Park porta l’opera Code of the Eternal che, in un certo senso, reinterpreta uno dei temi più cari a Jongkyu Park – il rumore, il noise – nel contesto del deserto egiziano. Park intreccia spiritualità antica e linguaggio digitale, trasformando il paesaggio in un campo di connessioni simboliche. 

Partendo da una struttura geometrica ispirata alle proporzioni delle piramidi, l’artista inserisce all’interno di un telaio quadrato numeri, identità e messaggi nascosti, come segreti sepolti nella pietra. Intorno, circa mille punti specchianti in acciaio inossidabile riflettono la luce e si comportano come pixel: frammenti di rumore digitale che diventano codice e memoria. Il risultato è uno spazio meditativo dove tecnologia, materia e mito dialogano. E dove un messaggio immaginario — da Dangun, mitico fondatore della Corea, a un faraone egizio — ricuce il filo tra passato e futuro, tra desiderio di eternità e ricerca di senso.

Nel suo lavoro il rumore digitale diventa linguaggio visivo e materia poetica. In Code of the Eternal, questo rumore entra nel deserto egiziano e si intreccia con l’idea di eternità. Come si incontrano, per lei, l’imperfezione del dato digitale e l’aspirazione all’immortalità che definisce le Piramidi?
«Non considero davvero il rumore come un errore. Per me è più simile a una traccia della presenza umana. E a volte quella traccia può perfino essere bella. Il mio processo di codifica parte da dati personali, come un numero di telefono o un numero d’identificazione. Inserisco questi numeri in una formula che ho creato e li trasformo in forme geometriche uniche. È un modo per trasformare qualcosa di puramente numerico — l’identità nascosta di una persona — in una forma o in un segnale visibile, unico nel suo genere.

Per Code of the Eternal, ho utilizzato la stessa formula, ma ho sostituito i dati personali con l’altezza effettiva e la lunghezza del lato delle Piramidi. Inserendo queste proporzioni antiche nel mio algoritmo, ho creato tre nuove strutture triangolari, che insieme formano una grande scultura in acciaio. Quindi quest’opera è come una ri-traduzione del codice nascosto delle Piramidi in un linguaggio digitale e contemporaneo. Le Piramidi rappresentano l’eternità, eppure sono strutture costruite dall’uomo. I dati digitali, invece, sono temporanei, ma portano con sé le nostre tracce personali. Trovo affascinante il punto d’incontro tra questi due mondi: dove l’eternità incontra l’istante, dove la perfezione si fonde con l’errore».

L’opera immagina un dialogo tra Dangun, fondatore mitico della Corea, e un faraone egiziano. Cosa la affascina di questo incontro immaginario tra due civiltà lontane e cosa rivela, secondo lei, sul nostro presente globale?
«In quest’opera ho disposto circa mille punti specchianti in acrilico sul terreno, di fronte alle strutture triangolari, disposti in codice Morse. Il codice compone una lettera poetica che ho scritto, immaginando un messaggio da Dangun, il mitico fondatore della Corea, a un faraone egizio. La stessa poesia è incisa in inglese e in arabo sul pilastro di pietra accanto all’opera.

[Messaggio da Dangun al Faraone]
“Come il sole che sorge a oriente, così il re di Gojoseon, che fondò la sua nazione secondo la volontà del cielo e della terra, porge i suoi saluti a Sua Maestà il Faraone, che abbraccia i misteri del Nilo. Sebbene siamo due nazioni lontane, crediamo di essere una sola nel nostro culto dei cieli e nella nostra cura per il popolo.

Sotto i nostri monoliti, sotto le vostre piramidi, l’uomo respira con gli dèi, e la verità è incisa nella pietra e nel cielo. Al di là del tempo, che la nostra saggezza si illumini a vicenda. Da Dangun Wanggum, Asadal”.

Corea ed Egitto sono lontane, ma entrambe le civiltà furono fondate attraverso il mito e registrarono il tempo attraverso i loro monumenti. Quindi il dialogo immaginato tra Dangun e il Faraone riguarda in realtà domande umane universali: Da dove veniamo e dove stiamo andando?. Anche se il mondo di oggi parla spesso di disconnessione, la tecnologia e le reti in realtà collegano tutte le civiltà. Per me, questo incontro tra due figure antiche non riguarda il passato: è uno specchio che riflette la nostra realtà presente».

La struttura triangolare dell’opera riprende le proporzioni delle Piramidi, ma diventa anche codice, messaggio cifrato, geometria viva. Crede che la matematica e la forma possano essere una lingua spirituale capace di attraversare il tempo?
«I triangoli sono, naturalmente, la forma delle Piramidi, ma sono anche l’unità di base di un’immagine digitale, il poligono. Sono attratto dal momento in cui la pietra antica e i dati moderni si incontrano attraverso lo stesso principio geometrico. Ecco perché questa struttura è meno una scultura e più un testo cifrato. L’ho progettata in modo che l’intera opera possa essere letta quasi come una singola frase.
Credo che la geometria sia un linguaggio universale e spirituale, più antico della religione o delle parole pronunciate. Una forma non è solo pietra solida, è un segnale che continua a vibrare nel tempo e attraverso le civiltà».

Lei spesso scava nel digitale come un archeologo, estraendo frammenti di errore e trasformandoli in bellezza. Se l’arte antica custodiva miti e rituali, cosa custodisce oggi l’arte tecnologica?
«L’arte antica ha preservato i miti, ma credo che l’arte tecnologica di oggi preservi la memoria e le tracce. Io raccolgo dati danneggiati, o rumori digitali come frammenti, e li trasformo in forme visive. Nell’imperfezione, non nella perfezione, risiede l’emozione. È lì che vive la presenza umana. L’arte basata sulla tecnologia non sogna l’eternità. Piuttosto, registra il nostro tentativo umano di aggrapparci alle cose che stanno scomparendo. Quindi, anche se il regno digitale sembra lontano dall’arte antica, credo che serva lo stesso scopo: ricordare».

Nelle sue opere compaiono numeri di telefono e identità reali: un archivio intimo che diventa arte. È un modo per dire che la memoria umana — anche quella effimera — merita di essere eterna?
«I miei precedenti video digitali — su cui lavoro da più di un decennio — usavano quei dati personali per generare visualizzazioni uniche e codificate. Uno di quei video precedenti sarà proiettato su questa scultura durante la serata inaugurale. In quelle opere cercavo di trasformare i dati di una persona in una forma visiva singolare. Qualcosa che rimane anche quando i dati stessi scompaiono.

Collocando una traccia così piccola di un essere umano nell’immensità del deserto, l’opera crea una collisione tra eternità e momento fugace. Per me, quella tensione è il cuore di questo lavoro. Alla fine, la storia non è fatta solo dalle grandi civiltà. È costruita da memorie individuali, voci e tracce. Ciò che sembra più effimero può, in un certo senso, raggiungere il futuro e durare più a lungo di tutto».

Foto: MO4 Network/Art d’Égypte