Erika Rombaldoni – dopo il tour di Cesare Cremonini e le cinque rappresentazioni de Il Nome della Rosa al Teatro alla Scala di Milano – firma le coreografie di Bonsoir Monte-Carlo – Omaggio a Joséphine Baker, in scena il 19 e il 21 novembre al Grimaldi Forum di Monaco, all’interno delle celebrazioni per la Festa Nazionale monegasca.
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Lo spettacolo riporta sul palcoscenico la figura magnetica di Joséphine Baker, diva del jazz e icona di libertà, artista e attivista che fece della sua vita un atto di coraggio e fratellanza universale. Commissionato dall’Opéra de Monte-Carlo in occasione del cinquantesimo anniversario della scomparsa della Baker, il progetto ne rievoca l’intero percorso umano e artistico attraverso danza, musica e immagini: dai trionfi parigini al Théâtre des Champs-Élysées, cento anni fa, fino agli ultimi giorni nel 1975, accanto all’amica e alleata di una vita, la principessa Grace di Monaco.
Erika Rombaldoni omaggia Joséphine Baker: la danza come libertà e memoria
Portare in scena Joséphine Baker significa confrontarsi con una figura complessa. Qual è stato il punto di partenza delle tue coreografie per Bonsoir Monte-Carlo?
«Il punto di partenza è stato il desiderio di restituire la sua energia, il suo carisma e la libertà che ha sempre espresso attraverso la danza e la sua vita. Non volevo costruire un ritratto imitativo, ma evocare il suo spirito e la sua essenza attraverso un linguaggio che potesse far dialogare passato e presente. Bonsoir Monte-Carlo è anche un viaggio nel tempo e nella storia della danza del Novecento, attraverso i diversi stili e generi che Joséphine Baker ha reinventato con la sua personalità unica: dal pazzo charleston all’eleganza delle grandi riviste francesi. Ho cercato di rendere omaggio a quella varietà di linguaggi mantenendo uno sguardo contemporaneo, capace di parlare al pubblico di oggi».
Cosa rappresenta ancora, secondo te, Joséphine Baker oggi, per le donne ma più in generale per la società contemporanea?
«Joséphine Baker rappresenta una forma rara di libertà: la libertà di essere se stessa, in un’epoca che non lo permetteva. È stata una pioniera non solo nella danza e nello spettacolo, ma anche nel modo di vivere la propria identità, il corpo e la diversità. In lei convivevano leggerezza e forza, ironia e impegno civile, arte e coraggio. Oggi la sua figura continua a parlarci perché incarna un’idea di emancipazione che va oltre le mode e i confini: una donna che ha saputo trasformare la scena in un luogo di affermazione personale e collettiva».
Bonsoir Monte-Carlo: un tributo tra musica, arte e coraggio
Le tue coreografie spesso fondono gesto teatrale e immaginazione. Come hai lavorato sul corpo dei danzatori per raccontare una storia che è insieme biografia e mito?
«In questo lavoro, assieme al libretto e alla musica, il corpo dei danzatori è strumento per raccontare la vita di Joséphine Baker, ma in primis per restituirne la dimensione più intima e universale. Con il regista Davide Livermore, non si vuole una ricostruzione biografica né un’imitazione, ma un racconto fatto di atmosfere, di emozioni, di ritmi che cambiano nel tempo. Lavorando su stili diversi ho cercato di mantenere un fil rouge che li unisse in modo naturale e che parli di lei ma anche a tutti noi».
Bonsoir Monte-Carlo nasce in occasione della Festa Nazionale monegasca, ma anche del 50° anniversario della scomparsa di Joséphine Baker. Che atmosfera si respira dietro le quinte di un evento così simbolico per Monte-carlo?
«Si respira un’atmosfera di grande emozione e rispetto. Montecarlo ha un legame profondo con Joséphine Baker, che qui si è esibita e che ha lasciato un’impronta indelebile nella memoria culturale del Principato. L’idea di renderle omaggio proprio in occasione della Festa Nazionale e del cinquantesimo anniversario della sua scomparsa dà a tutto il progetto un significato speciale».
Il linguaggio del corpo come racconto del tempo
Dalla Scala al tour di Cesare Cremonini: c’è un filo invisibile che unisce i mondi dell’opera, del pop e della danza contemporanea nel tuo linguaggio?
«Cambiano i contesti, le estetiche, i linguaggi, ma alla base resta la stessa esigenza: dare forma visibile a un’emozione, a un pensiero, a una visione. Ogni progetto mi chiede di trovare un linguaggio che appartenga a quel mondo specifico ma quello che mi interessa è sempre far sì che il movimento resti autentico, capace di comunicare qualcosa di vero, qualunque sia il palcoscenico».
Nella tua carriera hai collaborato con tanti registi. Quanto l’esperienza teatrale e operistica influenza il tuo modo di costruire una coreografia?
«L’esperienza teatrale e operistica ha influenzato profondamente il mio modo di pensare la coreografia. Mi ha insegnato l’importanza della drammaturgia, della relazione tra gesto, spazio e musica, ma soprattutto della coerenza interna di un racconto. Il confronto con i registi è sempre prezioso perché obbliga a guardare la scena da prospettive diverse, a capire come la danza possa dialogare con la parola, la luce, l’immagine. Credo che la coreografia non dovrebbe mai essere un elemento isolato, ma parte di un organismo vivo in cui le varie componenti contribuiscono a costruire significato».
Joséphine Baker oggi: icona di emancipazione e forza femminile
Hai spesso esplorato il rapporto tra corpo, identità e natura. Penso a Di Uomini e Animali o al corto Arianna. In che modo questa riflessione rientra anche in un tributo come quello a Joséphine Baker?
«Anche raccontare Joséphine Baker significa parlare di identità, di corpo e di libertà. Il suo percorso è stato una continua affermazione di sé, in un’epoca e in contesti in cui essere donna, nera e artista significava dover rompere barriere ogni giorno. Ho cercato di restituire quella forza vitale senza mai cadere nell’imitazione, ma esplorando il corpo come spazio di memoria e di resistenza. In fondo, la danza è sempre un modo per interrogare l’identità: ogni gesto dovrebbe raccontare chi siamo e quanto siamo disposti a metterci in gioco».
Da coreografa e regista, ti muovi tra varie discipline. Cosa cerchi oggi in un progetto perché ti parli davvero?
«Cerco verità. Un progetto mi interessa quando sento che dietro c’è una necessità autentica, qualcosa che ha un senso profondo da condividere. Può essere un tema, una musica, una storia, ma deve toccare qualcosa di reale, che mi metta in ascolto e mi costringa a cercare nuove forme. L’arte può creare ponti, aprire possibilità, generare empatia. Quando questo accade, sento che vale la pena esserci».
E dopo Monte-Carlo?
«Sarò in Georgia con la delegazione italiana per l’Eurovision Junior, un grande evento che unisce giovani talenti da tutta Europa. A marzo poi ci sarà la ripresa de Il Nome della Rosa al Teatro Carlo Felice di Genova, coproduzione Scala di Milano e Opéra di Parigi. Alla fine di quest’anno invece ci sarà probabilmente un impegno in televisione, ma è presto per parlarne».