«La macchina può creare arte, ma non può riconoscerla». È questa una delle suggestioni che l’artista Matteo Mauro ci propone in occasione del VDA Award 2025 di Var Group, che gli ha riconosciuto la Menzione speciale con l’opera What I Think It Becomes. Un lavoro che si muove lungo quel filo sottile che lega la memoria dell’ornamento barocco alle infinite traiettorie di un pixel in movimento.
Artista italo-britannico tra i protagonisti della nuova scena dell’Arte Generativa, Mauro si è distinto con un progetto che, nell’ambito della serie Micromegalic Inscriptions, combina simulazioni morfogenetiche, algoritmi di crescita e riferimenti all’incisione tradizionale. What I Think It Becomes, in particolare, riflette sull’idea che il pensiero non sia un atto descrittivo, ma un processo generativo. Capace, cioè, di dare forma, materia e ritmo al mondo.
Menzione speciale al VDA Award 2025: com’è ricevere questo riconoscimento?
Sicuramente è un onore ricevere qualsiasi riconoscimento, perché fare l’artista è un lavoro davvero duro. Quando questo lavoro viene apprezzato, dà molta energia e motivazione. Non è un mestiere che regala soddisfazioni quotidiane: servono spesso lunghi periodi di gestazione prima di comprendere il senso delle proprie azioni.
Ci racconti la tua opera?
La mia opera, dal titolo What I Think It Becomes – nel senso di “ciò che io immagino si manifesta” –, segna la fine di una serie di iscrizioni che ho iniziato nel 2016, incentrate sul rapporto tra essere umano e macchina. Una macchina sempre più autonoma, ma anche sempre più controllata. All’inizio la macchina generava creazioni inaspettate, e l’artista aveva il ruolo di giudicare: “questo può essere arte, questo no”.
Con il tempo, però, dopo quasi dieci anni di lavoro, l’artista ha imparato a prevedere l’output della macchina, accrescendo una sua intelligenza artificiale. Così come la macchina entra nei meccanismi dell’intelligenza umana, l’artista entra in quelli dell’intelligenza artificiale. Dopo tanto lavoro, da un prompt l’artista riesce a immaginare ciò che si manifesterà. “Ciò che penso si manifesta”, appunto.
Un tema che emerge dal tuo lavoro è quello del tempo. In una società che accelera sempre di più, quanto l’arte può difendere il diritto a prendersi il proprio tempo?
È una domanda molto profonda, ma purtroppo la risposta non coincide sempre con l’idea della lentezza. Il sogno dell’artista è rallentare, tornare al tempo della materia e dell’artigianalità, del plasmare un’idea. Ma il mondo contemporaneo richiede rapidità e un costante rinnovo dei contenuti artistici: oggi non ci si può più permettere di creare arte lentamente.
LEGGI ANCHE: — Auriea Harvey vince il VDA Award 2025: «Calore umano e precisione tecnologica»
Anche i mezzi tradizionali si sono adattati. Il pittore contemporaneo, per esempio, si avvale di tecnologie come telefoni, tablet o schizzi digitali per velocizzare il lavoro. Non esiste più l’artista che, come i maestri del passato, può vivere creando quindici opere in tutta la vita. Oggi bisogna stare al passo con i social media, che richiedono novità continue, e con il ritmo globale del sistema dell’arte.
È questa la sfida, quindi: integrare gli strumenti di oggi senza perdere la dimensione creativa?
Esatto. Ma soprattutto serve mantenere un pensiero critico. Qualsiasi mezzo può creare arte – anche un silenzio, un rumore, una videocamera o una macchina fotografica – ma non è semplice riconoscere la soglia tra un’opera d’arte e un semplice contenuto visivo.
Qui entra in gioco l’artista, con la sua intuizione e la sua sensibilità. Nessuno sa davvero cos’è lo “spirito dell’arte”, ma chi ha una sensibilità profonda e ha studiato a lungo riesce a riconoscerlo. Faccio un esempio: se mi portate davanti a dieci opere, con la mia esperienza di quindici anni potrei dire subito quali sono arte e quali no, ma spiegare il perché sarebbe molto più difficile. È una questione di sensibilità. Un critico con sessant’anni di esperienza lo farebbe ancora meglio. Le macchine, invece, sono capaci di generare arte, ma non di comprendere quando l’hanno realmente creata.
In questo senso, quanto è importante la scuola nello sviluppo del pensiero critico dell’artista e non solo?
È fondamentale. La semplice intuizione può creare un genio del formale, ma ci sono cose che non si possono imparare. La capacità creativa è innata, mentre quella riproduttiva si può apprendere. Chiunque, con studio e dedizione, può arrivare alla tecnica di Michelangelo, ma l’intuizione di Michelangelo non si insegna. La scuola, però, è essenziale per formare l’autocritica. Più si studiano gli altri, più si impara a mettere in discussione il proprio pensiero. Chi crede di aver trovato la verità, sicuramente è nel torto.
Immagini via Var Group / Courtesy dell’artista