Martina Bernocchi tra poesia e cinema: «Allenate la creatività, come se fosse un muscolo»

Dalla poesia al teatro, passando per il cinema: l’arte, per Martina Bernocchi, ha mille declinazioni. Martina debutterà infatti a novembre al cinema come co-protagonista nel film Una famiglia Sottosopra, diretto dal regista Alessandro Genovesi e con Luca Argentero, Licia Maglietta e Valentina Lodovini.

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Prima del grande schermo – tra online e offline – sotto il nome di Ibi si è fatta notare nel mondo della slam poetry, utilizzando i social media per riappropriarsi del linguaggio poetico, che porta anche nelle scuole con il suo workshop di poesia performativa. Perché – come dice a Revenews Arts – la creatività è un muscolo e, in quanto tale, va allenata.

Dalla poesia al cinema: il debutto di Martina Bernocchi

Partiamo dal cinema. Com’è iniziata l’avventura di Una famiglia sottosopra?
«Ho iniziato facendo il self tape, che facciamo ormai per tutti i provini in prima battuta. Ricordo ancora che chiesi un consiglio alla mia agente, perché non si capiva bene cosa dovessimo fare. Le ho chiesto Come la gestisco secondo te?. Mi ha risposto È difficile. Quindi ho chiamato un mio carissimo amico attore e abbiamo cercato di capire meglio. È stato un esperimento».

Ce lo racconti?
«Dovevo interpretare la nonna. Quando ho ricevuto il call back, sono andata in metro con i mezzi perché con la macchina a Roma è un casino. Ricordo che sono arrivata un’ora prima e che ero l’unica vestita da nonna. Avevo le calze color carne, le scarpe col tacchetto, le forcine nei capelli, il foulard e la borsetta di mia nonna. Cerco sempre di fidarmi delle mie intuizioni, anche perché sono alla base del lavoro dell’attore, ma mi sentivo una deficiente».

Invece è andata bene!
«C’era Valeria Miranda, casting director, e il regista. Hanno subito detto Finalmente una vestita!. Era il primo call back in presenza: ero a Cinecittà e stavo già vivendo il mio film. Valeria poi ha un cuore grande. Non è facile mettere a proprio agio gli attori: sei lì tutto il giorno e ci sta che ti deconcentri. Invece mi sono sentita accolta. Mi hanno dato diverse indicazioni e volevo dare il meglio di me, ma ero anche nella condizione ottimale per farlo. Sono veramente tanto grata di aver avuto la mia prima esperienza cinematografica con queste persone. È stato perfetto».

E ora ti vedremo presto al cinema.
«Per me era tutto nuovo, perché avevo fatto solo la comparsa e poi il teatro. Sono stata fortunatissima. Non avendo altri metri di paragone so solo che è stato bellissimo, divertente e spero che si veda il clima positivo delle riprese anche dal film».

Facciamo un passo indietro, perché possiamo dire che tu sei un’artista a 360 gradi. Poesia, teatro e ora cinema: come ti muovi tra le varie forme d’arte?
«In realtà, ti dico la verità, ho iniziato a fare teatro a 12 anni ed è nato tutto da lì. A me è sempre piaciuto tanto scrivere, sin dalle elementari. L’altro giorno, con i ricordi Facebook, ho visto che nel 2020 ho partecipato a un concorso di monologhi, molto prima della poesia. C’era un palchetto e per me era un’esperienza legata al teatro, in un locale minuscolo. Vinsi il concorso e dissi a me stessa Ah che figo, mi piace non solo performare cose scritte da altri, ma anche cose che scrivo io. Se proprio dovessi fissare un punto d’inizio, è stato proprio quel concorso a cui mi avevo proposto un mio ex insegnante di teatro. Quindi tutto torna».

E i social come sono arrivati?
«Quando ho finito il liceo, ho provato tutte le accademie possibili. Un giorno, prima di partire per Milano per un provino, scrissi un pensiero ironico su una situazione che avevo vissuto con un ragazzo. Volevo farlo come esercizio di recitazione con una macchina da presa, visto che ho sempre fatto teatro e lì non puoi rivederti: quindi mi sono messa in sala col telefono.

Ho pubblicato un video su Instagram come mio esperimento sociale. Il giorno dopo sono partita per il provino e vedevo che il video aveva fatto un po’ di visualizzazioni. Mi son detta Sai che c’è? Io ho così tanti monologhetti scritti che mi va di pubblicarli. Penso che la creatività sia qualcosa con cui nasci, ma anche un muscolo: più scrivi tutti i giorni, più ti vengono cose da scrivere. I social sono stati solo il mezzo più facile che avevo, altrimenti mi sarei messa da un’altra parte».

E come vivi la compresenza di tutti questi media nella tua vita?
«Mi piace fare tante cose diverse: il teatro e il cinema sono la mia vita, però il nostro lavoro comporta anche vita vissuta. Devi vivere tanto, altrimenti quando devi girare una scena a che cosa ti appigli se non guardi veramente le persone quando sei per strada? Se non scavi un po’?».

Viviamo in tempi molto veloci che non sempre permettono uno stop.
«Hai toccato la questione del tempo che è fondamentale. Sai quante volte vorrei scrivere qualcosa, prendo il telefono, apro Instagram ed è finita? Passo 20 minuti a guardare i reel. Non avrei scritto l’Infinito di Leopardi, ma magari tre frasi che mi avrebbero per sempre ricordato le emozioni di quel momento, quelle sì. Abbiamo una concezione falsatissima del tempo, perché 20 minuti a scrollare su Instagram sono pochi, ma se fissi un foglio bianco per 20 minuti ti sembra di aver perso settimane della tua vita».

Cosa ti spinge a proseguire sulla strada della slam poetry?
«Non lo dico per presunzione, perché non me lo sarei mai aspettato, ma mi è capitato di essere fermata per strada da ragazze e ragazzi che mi seguono. Vedere i loro occhi mentre mi dicono Grazie mille è impagabile. Io li abbraccio tutti, anche perché c’è bisogno di vedersi dal vivo e staccarsi dal telefono».

Nessun rimpianto, quindi?
«A volte vacillo perché ho paura che espormi tanto sui social mi faccia passare come una influencer, mentre in realtà io non la vedo così. A volte penso Basta, non voglio più fare niente perché questa cosa mi sminuisce e i social fanno perdere valore a tutto. Molto spesso faccio questi pensieri, ma quando incontro persone che si illuminano e dicono che è importante ciò che faccio sento una responsabilità. Una responsabilità bella che mi riconnette al perché faccio questa cosa. Quando condividi qualcosa di tuo lo fai per spartire un po’ di solitudine, ma anche perché non vuoi che altri si sentano in quel modo».

Un esercizio sempre più difficile al giorno d’oggi.
«È proprio difficile capirsi tra esseri umani. Negli ultimi anni si parla di intelligenza emotiva e di comunità, ma è un processo lungo. Siamo abituati a vedere le cose in modo schematico, invece una solo persona può essere tante cose insieme e questo non sminuisce niente di ciò che fa. Tutto è nutrimento. Bisogna essere bravi e aperti per arricchirsi da tutto».