L’ecologia poetica di Chris Soal al MAXXI: «La meraviglia è ovunque»

Il MAXXI, negli spazi del Corner, dal 19 ottobre al 27 novembre 2025 ospita Spillovers: Notes on a Phenomenological Ecology, la prima grande mostra personale in Italia di Chris Soal, a cura di Cesare Biasini Selvaggi. Prodotta dalla Fondazione D’ARC in collaborazione con Piero Atchugarry Gallery e Montoro12 Gallery, Spillovers è un viaggio nella ricerca decennale di Soal, che – per l’occasione – ha ideato opere site-specific intorno al concetto di spillover: forme vive che nascono da ciò che è stato scartato: la tracimazione.

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Spillovers: la prima personale di Chris Soal al MAXXI

Una prima personale al MAXXI: che effetto fa esporre qui a Roma?
«Sono molto contento di essere qui a Roma per presentare questo corpo di lavoro. In mostra ci sono diversi pezzi: dietro di me, ad esempio, vedete The Ascension, una scultura realizzata interamente con stuzzicadenti di bambù e legno di betulla. È un materiale a cui solitamente non viene attribuito molto valore oltre alla sua funzione iniziale, ma con cui lavoro da anni. Ho scoperto che possiede una propria agency, una capacità di trasformarsi davanti ai nostri occhi in qualcosa di completamente diverso. Quello che era rigido e affilato diventa fluido, caldo, organico. A Roma, tra tanta iconografia religiosa, ho sentito che questo movimento verso l’alto fosse come un’ascensione, e da lì il titolo dell’opera».

In mostra vediamo anche opere realizzate con tappi di bottiglia e carta vetrata.
«Lavoro con materiali molto comuni, come tappi di bottiglie, carta vetrata che uso sia come disco che per creare stampe in rilievo e immagini. Diventano forme scultoree».

La danza dei materiali: dialogo tra arte e materia

Come dialogano i materiali del tuo lavoro con lo spazio del MAXXI?
«Parte del mio lavoro consiste proprio nell’interazione con lo spazio. Troverete quindi qualche opera site-specific che cerca di interagire con alcune delle architetture, con gli elementi dello spazio espositivo. Sia nella considerazione spaziale degli elementi, è il caso dell’angolo di The Ascension, ma anche nell’interazione con gli elementi architettonici, come il pilastro al centro dello spazio. Spero che chi visiterà la mostra possa trovare un punto d’accesso familiare, per poi uscirne con una prospettiva completamente nuova su ciò che lo circonda».

Hai descritto spesso il tuo modo di lavorare come una danza. Cosa intendi?
«Non sono così interessato ad imporre la mia volontà sulla materia. In realtà sono più interessato a lavorare in modo collaborativo con i miei materiali, così che mi aprano a nuove possibilità che non ho mai considerato prima. Quando parlo del mio lavoro, ne parlo spesso come se fosse una danza: ho un partner e forse ci stiamo pestando i piedi a vicenda. O forse ci stiamo capendo. Quindi c’è un processo di apprendimento che spesso comincia con un’osservazione, un impulso in una particolare direzione in cui mi porta il materiale».

Ti lasci ispirare, insomma.
«Quel processo collaborativo con la materia ha ampliato la mia pratica in modi che non avrei mai immaginato se mi fossi limitato a raggiungere ciò che avevo pianificato. C’è un’apertura che si può avere verso il mondo, che consente nuove idee e possibilità, ma c’è anche qualcosa nell’essere presenti e nel rispondere a ciò che il materiale ti dà in tempo reale. Quel processo è ciò che muove la mia pratica in avanti: essere presente, reattivo e attento a ciò che viene rivelato nel processo di creazione».

Tra spiagge e miniere: il paesaggio del Sudafrica

Il paesaggio sudafricano è molto presente nel tuo immaginario. Quanto lo ha influenzato?
«Il paesaggio del Sudafrica, in particolare, è un’enorme ispirazione per me. Sono cresciuto originariamente sulla costa del KwaZulu-Natal, vicino alla spiaggia, e passavo ogni giorno da bambino sulla sabbia. Era un ambiente molto tattile: le vacanze in spiaggia sono state importanti per la mia famiglia per tutta la mia vita, e penso che quell’esperienza sia sicuramente entrata nel mio lavoro. Non mi propongo di creare forme biologiche, ma attraverso il processo di aggregazione e accumulazione che uso, queste forme emergono naturalmente, e molte di esse sono oceaniche nei loro riferimenti. Credo che ciò derivi dalle mie prime esperienze e impressioni dell’infanzia».

Johannesburg: una giungla di cemento

C’è però anche un aspetto fortemente ecologico.
«A sei anni mi sono trasferito a Johannesburg. Johannesburg è una città costruita esclusivamente per l’estrazione dell’oro, una città nata con poca considerazione per l’ambiente o per la sua posizione geografica. È un paesaggio molto strano in cui crescere: non ci sono montagne naturali intorno alla città, ma ora ci sono montagne fatte dall’uomo, che sono i residui delle miniere. Sono affascinato dalle incredibili forme di erosione che osservo e che continuano a emergere nel mio lavoro. C’è una connessione con l’Highveld, la savana che circonda Johannesburg, e alcuni riferimenti a questo si ritrovano nelle mie incisioni in mostra. Johannesburg è anche una città segnata dal suo impatto ecologico: il drenaggio acido delle miniere, i cambiamenti della falda, l’esposizione alla polvere e all’uranio provenienti dai residui minerari.

Tutti questi aspetti si sono tradotti in una consapevolezza ecologica all’interno della mia pratica. C’è una sensibilità nei confronti dei materiali che spero di trasmettere allo spettatore, un invito a rivedere il mondo che ci circonda. Johannesburg può essere descritta come una giungla di cemento, costruita senza alcun rispetto per l’ambiente, ma il naturale e il biologico trovano sempre un modo per riemergere. In alcuni miei lavori il calcestruzzo è posto in contrasto con le forme organiche – come i tappi di birra o gli stuzzicadenti – e si può vedere come la vita lentamente, con persistenza, sfondi il cemento. Penso che esistano logiche naturali e ambientali più sostenibili, e più forti a lungo termine, di molte delle nostre pratiche moderniste di architettura e vita urbana».

Meraviglia e sguardo

In Italia esiste il concetto di meraviglia. La trasformazione di questi materiali semplici in opere straordinarie stupisce a volte anche te stesso?
«La mia pratica riguarda il seguire il materiale in modo organico, lasciando che mi guidi verso nuove direzioni. La meraviglia – wonder – è un elemento fondamentale nel mio lavoro. La maggior parte delle mie opere nasce da un momento di sorpresa, quando mi meraviglio di qualcosa che mi si presenta davanti. Una scatola di stuzzicadenti con un motivo vorticoso che sembra l’interno di un girasole, per esempio. Scatto una foto e me ne dimentico per anni, perché chi se ne importa degli stuzzicadenti… eppure torno su quell’immagine e scopro che lì dentro c’è qualcosa di straordinario.

Ho dovuto superare il mio pregiudizio verso il materiale, imparare a vedere il suo potenziale e a lavorare con esso, lasciando che rivelasse la sua meraviglia. Credo che nel mio lavoro ci sia anche qualcosa di infantile, nel senso buono: un’apertura verso l’inaspettato. Il modo in cui un tappo di birra colpito dal sole può sembrare un pezzo d’oro, o la carta vetrata che, usata per levigare, rivela la venatura del legno e diventa un mezzo per creare immagini. Sono piccoli momenti che si rivelano ogni giorno, ma che spesso ignoriamo».

Un invito a rallentare

C’è un messaggio preciso al mondo, dunque, nelle tue opere?
«Spero che il mio lavoro offra agli spettatori l’opportunità di rallentare, di guardare due volte le cose, di rendersi conto che intorno a noi c’è davvero meraviglia. Ed è lo stesso per me: lavoro con gli stuzzicadenti da cinque o sei anni e continuano a sorprendermi, a rivelare qualcosa di nuovo. Lo stesso vale per i tappi di bottiglia, per la carta vetrata: ci sono così tante cose meravigliose dentro questi materiali. E allora ti viene da pensare: se ho prestato così poca attenzione e qualcosa come uno stuzzicadenti può essere così straordinario, forse ho trascurato altre cose, altre persone, altri luoghi. Abbiamo tutti bisogno di aprire gli occhi e ampliare un po’ la nostra percezione».