Armin Linke: «Fotografia, spazi e senso sociale»

Dal 10 al 12 ottobre a Parma va in scena la seconda edizione di FRAGILE, il Festival delle Arti e Discipline sostenibili. L’evento si tiene in sei splendide location diffuse in città: Colonne 28, Casa della Musica, Sala Show Cooking, Italia Veloce e Borgo Goldoni. Proprio nello spazio di Borgo delle Colonne 28 – dal 9 ottobre al 21 dicembre 2025 – è allestita la mostra Prelevamenti di Armin Linke, premio La Nuova Scelta Italiana, edizione 2025. La mostra è a cura di BDC – Bonanni Del Rio Catalog. Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con il fotografo e artista.

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Come nasce la mostra Prelevamenti nel contesto del festival FRAGILE?
«La mostra nasce con la collaborazione della mia galleria, la galleria Vistamare. Abbiamo scelto immagini da alcuni progetti che, in qualche modo, risuonano anche bene con lo spazio di questo luogo. Non è solo un luogo d’arte, ma contiene altre attività di socializzazione. A me interessa sempre usare la fotografia per raccontare spazi, luoghi e il loro senso sociale: come vengono letti e negoziati. Mi interessa poi anche il fatto che la fotografia racconti spazi tridimensionali e, proprio per questo, che reagisca agli ambienti espositivi e al luogo. Questo è un luogo interessante perché è una ex chiesa, un luogo di cerimonie, ma è anche un’ex officina, dove si produceva o si riparava».

Quali sono dunque le immagini che reagiscono a questo luogo unico nel suo genere?
«La prima parte della mostra è legata a un progetto su Carlo Mollino, fotografo e architetto. Vengono da una mostra fatta a Monaco insieme all’architetto Kuehn Malvezzi. Ci interessava non tanto far vedere il design o l’aspetto più dandy che viene spinto anche per motivi commerciali, quanto piuttosto due edifici: il Teatro Regio di Torino, uno spazio pubblico fantastico, e un dancing, luogo di incontri sociali. Spazi avvolgenti, con curve e parabole».

Addis Abeba, 2012

Ci sono anche montagne e Alpi.
«Sì, una parte della mostra è dedicata a fotografie che ruotano attorno alla rappresentazione del paesaggio delle Alpi. C’è ancora Mollino, con la sua funivia Furggen: la sua architettura qui diventa un display ottico sul paesaggio delle Alpi. Poi c’è la diga Grande Dixence, che ha ispirato il primo film di Godard, ma c’è anche una rappresentazione scientifica delle Alpi che serve a capire il loro clima o il Museo a Saint Moritz dedicato a Giovanni Segantini. Sono immagini che arrivano anche da un mio film sulla rappresentazione del paesaggio delle Alpi».

Di Segantini vediamo il trittico: una scelta casuale come soggetto?
«Lo vediamo oggi come pittura aulica, ma era il prototipo di Segantini per un padiglione all’Expo di Parigi del 1900 finanziato dagli hotelier dell’Engadina. Voleva fare un dipinto rotondo di 32 metri, ma poi il comune di Pontresina si tirò indietro e il progetto di promozione artistica crollò. Nel mio film ci sono immagini girate a Ski Dubai che noi consideriamo una appropriazione culturale inappropriata, eppure Segantini operò con lo stesso senso di promozione turistica. Ci si domanda quale sia il senso della natura».

Una sezione è dedicata poi ai luoghi della politica, cosa puoi dirci?
«Sono immagini della Costituzione italiana di 12 anni fa. Un progetto fatto per e con il MAXXI: abbiamo identificato i luoghi e le istituzioni elencati nella Costituzione italiana e poi, sistematicamente, per un anno e mezzo li abbiamo fotografati. Qui c’è Montecitorio e un dipinto di Sartorio con una giovanissima Italia: una specie di TikTok del 1812».

Sei stato anche in Etiopia.
«Sì, un altro progetto è legato alla storia italiana: c’è la foto di una scultura creata durante l’occupazione del regime italiano in Etiopia. Nel momento della liberazione, i cittadini si sono riappropriati di questa scultura di propaganda mettendo il loro leone. È la piazza dell’università ad Addis Abeba».

Altre foto di viaggi?
«C’è anche parte del progetto con Giovanna Silva, editrice italiana di Humboldt Books. L’idea era quella di invitare uno scrittore e un fotografo a fare un viaggio. Ho viaggiato con Vincenzo Latronico da Gibuti, seguendo una ferrovia costruita dal suo trisnonno. Ci sono immagini di un lago di sale, dove hanno girato Star Trek, e le montagne di Harar. Qui si produce il caffè ed è incredibile quanto i contadini siano connessi con i prezzi delle borse di Boston e Ginevra. È un posto remoto, ma interconnesso con il mondo: dà l’idea di una spazialità non più analogica, ma anche digitale».

Viaggi, politica, paesaggi: cosa manca?
«Ti cito tre immagini poetiche: una ritrae un hotel a Saint Kitts, per la Biennale dei Caraibi, come un conglomerato di esseri viventi. Un’altra è il Museo della Specola di Firenze, parte di un progetto più ampio. Sto curando a questo proposito anche una mostra con il Fistolic Institute a Firenze, che inaugurerà l’11 novembre. Infine un lavoro sul territorio degli Abruzzi, realizzato con Vistarte di Pescara. Sono progetti diversi ma che trovano nello spazio un fil rouge e la loro coreografia. Stiamo cercando di appenderli a diverse altezze, creando una partitura musicale che possa schivare lo spazio».

Interessante, spiegami meglio questo concetto.
«L’idea qui è di non appendere le immagini alla stessa altezza, ma giocare con l’architettura. La musica la intendo più come una composizione coreografica dell’immagine che scandisce un ritmo. Spero possa aiutare a relazionarsi alla storia di questa spazio».

Palazzo Montecitorio, 2007

Il tuo amico Luca Cerizza di te dice: la sua fotografia è la conseguenza della curiosità dell’antropologo. Sei d’accordo?
«Un po’ è così. La fotografia diventa una scusa per entrare in un mondo e chiedersi come lo spazio rappresenti un certo tema. Fotografare ciò che ha fatto un architetto non è solo mostrare il suo lavoro, ma come l’architettura viene utilizzata. L’architettura non è un’entità finita, ha una sua funzione che attiva processi sociali o altro. Ad esempio, la rappresentazione delle Alpi diventa un laboratorio per domandarci cosa sia oggi la natura. Esiste la natura o è un’invenzione culturale antropologica, dato che questi paesaggi dal 1600 vengono influenzati dall’uomo? Come raccontare un luogo come l’Etiopia che sembra disconnesso? Per capire un pezzo di storia dobbiamo capire le interconnessioni e cosa ci accomuna. In questo senso sì, mi sento antropologo».

La fotografia diventa dunque un’indagine?
«È una scusa per l’indagine, che spero però sia anche poetica. La fotografia per me non è documentativa, ma serve a porre delle domande. Forse anche sul tema stesso della rappresentazione. Non documento il luogo, ma cerco di creare un’immagine che possa porre una domanda filosofica. Il soggetto fotografato diventa quindi un placeholder per temi più ampi. È quello che spero».

Devi avere un archivio immenso: come scegli cosa esporre?
«In questo caso la scelta è stata abbastanza organica, perché questa mostra nasce anche dal premio Nuova Scelta Italiana. In generale, però, lavoro con le mie fotografie attraverso dei moduli di circa 150×200 centimetri. C’è sempre il bordo bianco, dovuto ai formati della camera: lascio il bordo perché non adatto mai la cornice al negativo. Sin dall’inizio, dunque, ricompongo il materiale e reagisco anche ai luoghi espostivi. Lavoro quasi come uno scultore che utilizza le immagini per creare ambienti, così che il pubblico possa navigarli come se fossero in un giardino o in un ipertesto. In questo senso, sì, ho un archivio, un insieme di materiali: queste sono alcune immagini di un corpo di lavoro molto più ampio che riattivo in base ai progetti».

L’idea dello spazio è centrale nel tuo lavoro: come mai?
«Anche la macchina fotografica è uno spazio perché è una camera oscura. Sin dall’inizio, nel 1600, è stata una stanza con un buco che proietta il suo esterno. Succede anche nello smartphone, sebbene la stanza sia diventata molto piccola. Lo spazio e la sua idea è al centro dell’idea tecnica della fotografia. La mostra Image Capital, fatta con la storica della fotografia Estelle Blaschke, raccontava proprio la fotografia come esempio di racconto tecnico dello spazio.

Grand Dixance, 1998

Per me è un tema centrale: in verità anche il mio lavoro artistico non finisce con lo scatto e la cornice. Io prendo le immagini e le metto in uno spazio che pone domande al pubblico. Perciò sono due momenti di operazione concettuale e artistica: la ripresa, la fotografia, e poi la rimessa in scena, che dovrebbe essere parte concettuale dell’operato artistico. In altre mostre più complicate inserisco anche testi e suoni».

Nel film sulle Alpi, che forse presenterete, da dove nasce l’idea?
«Il film nasce almeno quindici anni fa, insieme a Piero Zanini. In quel periodo viaggiavo molto, dalla Cina al Sud America, fotografando infrastrutture nel paesaggio, anche molto invasive. Piero, allora vivevo ancora a Milano, mi disse: Guarda che tu sei sempre sull’aereo, ma questo tipo di cambiamento è a ottanta chilometri da qui. Solo che non lo percepiamo, perché la rappresentazione delle Alpi è carica di un’iconografia e di un concetto di turismo che nasce negli anni Cinquanta. Questa idea mi ha colpito: quella modernità che io attribuivo agli anni Sessanta era in realtà iniziata molto prima. Con Piero e Rinaldi abbiamo realizzato un’installazione alla Biennale e poi ci siamo detti: facciamo un film. Ci abbiamo messo cinque anni. È girato in pellicola, e non è sulle Alpi ma sulla rappresentazione dell’immagine delle Alpi».

Che tipo di film è, esattamente?
«È un film claustrofobico, non si vede mai il paesaggio, ma solo laboratori scientifici, pitture o altre rappresentazioni. È un film anti-documentario: si è trasportati, attraverso l’editing, da un luogo all’altro, e chi guarda si chiede se la scena successiva sia davvero in un altro posto. Confronta il cliché con l’immaginario. Non spiega niente, ma pone domande. In questo senso è un film artistico, e in qualche modo anche anti-ecologico, pur parlando di temi ecologici».

In che senso?
«C’è il custode Giordano, che vive con le pecore e racconta di essere rimasto in montagna per curare la madre, mentre i fratelli lavorano in fabbrica nella valle. Dice: Che fregatura, ho perso la mia vita. Un’idea di appropriazione del paesaggio, innovazione e progresso deve esserci: la domanda è come gestirla, e a chi farla gestire, e di quale immagine abbiamo bisogno per progettare il nostro futuro».

Oggi lo spazio si estende anche nel mondo digitale, tra intelligenza artificiale, social network e ambienti generativi. Come cambia, secondo te, il nostro modo di rappresentare e percepire le immagini in questo nuovo contesto?
«I tempi moderni hanno superato i temi. Non solo i social, ma anche l’intelligenza artificiale, il machine learning e i nuovi sistemi generativi di immagine. È interessante, perché partono da prompt testuali: la generazione di immagini nasce da concetti scritti, parlati, filosofici. La macchina reagisce e crea immagini che sono una media statistica degli immaginari, nel bene e nel male. Sono temi importanti per capire ancora di più come i nostri immaginari politici e i nostri scenari vengono generati e controllati. Bisogna essere coscienti di questi meccanismi, così da distribuire la conoscenza sui processi e prenderne consapevolezza.

La Specola, Firenze 2008

Image Capital, la mostra precedente, iniziava già ad affrontare alcuni di questi temi. Da un anno insegno all’Accademia di Belle Arti di Monaco, e una delle classi si occupa proprio di arte e generazione algoritmica di immagini. Sono argomenti che mi interessano molto: cerco di andare oltre la fotografia per incorporarli nella pratica. Penso che l’arte sia utile anche per questo, per avvicinare e porre domande importanti su questi temi».