Più che bambini. La figura dell’infante, con il suo sguardo innocente e stupito, ma anche impaurito, speranzoso, divertito o dubbioso, diventa l’archetipo per raccontare un’umanità intera alle prese con temi universali. Il cambiamento climatico, il futuro, le guerre, le migrazioni, la solitudine in epoca sociale o forse già post social. Per questo, le sensazioni che la più grande mostra personale di Valerio Berruti, curata da Nicolas Ballario, a Palazzo Reale a Milano suscita emozioni profondissime e contrastanti. In quei corpi di bimbi ci ritroviamo tutti noi.
Promossa dal Comune di Milano – Cultura, prodotta da Palazzo Reale e Arthemisia in collaborazione con Piuma e con il sostegno della Fondazione Ferrero, More than kids presenta sculture monumentali, installazioni, video e una giostra interattiva, invitando i visitatori a immergersi in un universo poetico che parte dall’infanzia ma va ben oltre. Berruti popola, infatti, le sale di Palazzo Reale con figure infantili sospese nel tempo, simboli di un’infanzia che è insieme ricordo collettivo e possibilità futura. È quello che siamo stati, saremo e siamo ancora.
Visitare l’esposizione è entrarvi dentro e lasciarsi raccontare attraverso linguaggi differenti in cui scultura, disegni, animazione e musica parlano fra loro. Per ogni ambiente, infatti, Berruti ha costruito un microcosmo potentissimo che si fa interpretare a diversi livelli. E la collaborazione con musicisti di fama internazionale rende l’esperienza ancora più coinvolgente. Se salendo sull’iconica La giostra di Nina si ascoltano le note di Ludovico Einaudi, altrove si possono ascoltare le sonorizzazioni affidate a da Rodrigo D’Erasmo (Lilith)e Samuel Romano (Cercare silenzio). Ma anche Daddy G dei Massive Attack per la grande scultura nel cortile d’onore (Don’t let me be wrong). E ancora, Paolo Conte e Ryuichi Sakamoto.
Il curatore Nicolas Ballario
“Le opere di Berruti non sono mai finite, sono sempre incompiute: ognuno può vederci dentro quello che vuole”, spiega il curatore Ballario. “I tratti sono solo suggeriti, le linee incompiute, non ci sono colori. In quei bambini possiamo vedere tutto: noi stessi, i nostri figli, i nostri genitori o i nostri nonni da bambini. Ognuno ci legge qualcosa di diverso, e non c’è niente di sbagliato in questo, anzi è questa la magia. È tutto aperto all’immaginazione, alla memoria, all’emozione. Quelle figure sono una metafora: raccontano l’età in cui tutto è ancora possibile. E quando tutto è possibile, si attiva una nuova speranza, nascono nuovi dubbi, emergono idee inaspettate, forse strane, forse imprevedibili, ma necessarie”.
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“È questo che spero succeda a ogni visitatore: che si lasci coinvolgere. Perché queste opere si attivano solo con la presenza di chi guarda. Del resto, la monumentalità delle sculture impone attenzione: non possiamo più distogliere lo sguardo: se scegliamo di non vedere, allora siamo complici. Per esempio, all’ingresso si trovano due grandi sculture di bambini su salvagenti. Il salvagente, per noi, è un gioco ma dall’altra parte del Mediterraneo è uno strumento di sopravvivenza. È un doppio significato potente”.
E la via stilistica che Valerio Berruti sceglie di percorre per raggiungere il suo obiettivo è quella della semplicità. “Berruti è tecnicamente un virtuoso. Eppure, da artista, ha cercato tutta la vita di semplificare, di togliere, fino a ridurre tutto a un tratto solo. – prosegue Ballario – Ma in quel tratto essenziale c’è tutto: il nostro futuro, i nostri viaggi interiori, la nostra capacità di immaginare.
Questa è la potenza del lavoro di Berruti: riesce a toccare corde profondissime in persone con storie, culture e origini diversissime. Ognuno trova la sua assonanza. E vi invito davvero ad avvicinarvi a queste opere monumentali con la massima apertura mentale possibile. Perché dentro ci potete leggere davvero tutto”.
Le parole dell’artista
“Vengo dalle Langhe, un insieme di paesini a sud di Cuneo, verso la Liguria. Luoghi di sussistenza, di agricoltura. La mia era una famiglia di contadini e, fin da bambino, mi interrogavo su come vecchie fotografie potesse commuovere mia madre sino alle lacrime”, ricorda Valerio Berruti. “Mi colpiva tantissimo, mi chiedevo: ‘Come si fa ad avere quel potere lì? Come si fa a fare un’immagine che parli così tanto a qualcuno?’
Disegnavo da sempre, era la mia vocazione. Mentre gli altri giocavano a calcio, io li disegnavo. E allora ho iniziato a lavorare su quel ‘superpotere’: evocare emozioni universali attraverso le immagini. Ho cominciato da me stesso, disegnando compulsivamente le mie foto da bambino. Poi ho iniziato a osservare le reazioni degli altri: quello che vedevano non era solo un bambino, era un’umanità”.
Ed ecco che, piano piano, prende forma il suo linguaggio. “Ho cominciato così a togliere tutto ciò che era connotazione, per rendere quei bambini sempre più ‘persone’, sempre più ‘noi’. Ecco perché il titolo della mostra è More than kids: perché non sono solo bambini: sono noi. Se un bambino guarda una mia opera e si riconosce, allora è un bambino. Ma se un adulto ci vede soltanto un bambino, si perde qualcosa. A me interessa creare figure che possano essere porte per entrare in un mondo complesso, pieno di domande, di urgenze”.
Da qui le tematiche affrontate. “Le mie opere parlano di migrazione, di guerra, di cambiamento climatico. Temi che non possiamo più ignorare. Chi ha voce, oggi, ha la responsabilità di usarla. Restare in silenzio significa essere complici. E io non voglio essere complice. Non [mi interessare] bellezza fine a sé stessa, ma qualcosa che scuota, che resti, che ci faccia guardare dove spesso distogliamo lo sguardo. L’arte, certo, deve essere anche bella ma la bellezza è uno strumento, non il fine. E oggi, più che mai, abbiamo bisogno di arte che sappia guardare in faccia il mondo”.
Foto Allestimento Valerio Berruti-Arthemisia via Ufficio Stampa