Alioscia Bisceglia ci racconta ‘Fumo’, il nuovo album dei Casino Royale: tra grafica e sonorità angoscianti (con un lieto fine, si spera).

Si intitola Fumo (Asian Fake) il nuovo album dei Casino Royale, un lavoro collettivo – come sottolinea Alioscia Bisceglia – e, nello stesso tempo, un flusso di immagini sonore. Specchio del nostro tempo e anche portavoce di esso: non è un caso che in copertina campeggi un turibolo, doppia lettura di un oggetto utilizzato nelle funzioni religiose cristiane. La grafica, del resto, è affidata a DeeMo ed è proprio da lì che facciamo partire la nostra chiacchierata con Alioscia.
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«DeeMo è bolognese, una figura chiave del mondo dell’hip hop . – ci dice – Ha sempre fatto il writer, poi è diventato graphic designer. Abbiamo lavorato con lui dopo che per anni ci eravamo sfiorati. Ora è diventato un membro aggiunto del collettivo, perché la parte grafica vale quanto la musica. A questo giro però c’era una complicazione. Ci siamo legati ad Asian Fake, etichetta abituata a fare quel lavoro per gli artisti: ha una unit di creativi molto prolifica. All’inizio DeeMo non voleva dare le sue cose agli altri, invece i ragazzi di Asian Fake erano molto contenti».

«Ho detto a DeeMo di fare quello che fanno le persone della nostra età: far lavorare la gente, dare una direzione, diventare un art director che esce di casa e si stacca dal computer su cui è piegato. – continua Alioscia – È andata benissimo, c’è stato un entusiasmo reciproco perché questa banda di ventenni ha apprezzato la direzione di DeeMo che ha lasciato loro anche libertà. E poi musicalmente si sono innamorati del genere e della potenza sonora, di questo sound».
Casino Royale: Fumo e la ricerca di un lieto fine
Tanti giovani in fondo hanno dato un diverso slancio a questo progetto. Una su tutti è Alda, che appare nelle tracce Sola e Odio e Oro. «Il disco è diventato un lavoro collettivo, vissuto e fatto crescere. – commenta Alioscia – È un disco fatto da una piccola comunità. È un album di mezz’ora, ci son tutti i presupposti per far sì che sia un lavoro che parte con il piede giusto. La strada fatta finora mi sta già pagando e lo vedo come un bicchiere mezzo pieno. Alda, ad esempio, ha dato speranza a un album con tensioni angoscianti nel descrivere scenari di disperazione, ma che vuole avere un’energia propositiva. Bisogna condividere le tensioni per sentirsi noi. Senza sentirsi angosciati da una possibile terza guerra mondiale. Ci dicevano che non sarebbe successo e invece ci riarmiamo».
Torniamo ad Alda e al suo lieto fine. «Mi ha detto che non c’era un lieto fine. – dice l’artista – E che sentiva un senso di solitudine. Vede la sua generazione piena di un’energia bellissima e devastante, ma anche di rancore perché si è sentita sola e non vede il futuro. Ho scritto Odio e oro dopo Sola perché è stato un processo di creatività. Dal primo pezzo è nato il secondo e così via… Non è un assemblaggio, ma una timeline». In fondo, «ognuno è in mezzo al suo percorso» – sospira Alioscia – e ad Alda resterà qualcosa: «Già questo è un gol. Io devo moltissimo a persone in cui sono inciampato e sono diventate poi piccole guide, suggestioni che mi han fatto crescere».

Tecnologia e sound
Arrivati a questo punto della propria carriera, del resto, «è il fine che fa la differenza, l’intenzione, l’onestà intellettuale e non la tecnologia. – commenta Alioscia – È chi gestisce la tecnologia e come lo fa. Io ho paura del futuro perché sono speculatori e sciacalli senza morale. Non mi fa paura la tecnologia, ma il fatto che la usino per controllare e per ammazzare la gente. Non fa paura l’IA se velocizza la ricerca sul cancro, fa paura se serve a sminare i campi che avete minato voi».
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Fumo è, in fondo, un album che rompe gli schemi, sia come struttura che come sonorità. «Però – ci dice Alioscia – ci ritrovo sempre un aspetto narcisista. Nell’elettronica è più voglia di essere élite, di sentirsi un club di privilegiati. Anche le cose più verticali son più esercizi estetici. Di come stai, come stiamo se ne parla poco. La nostra non è stata un’intuizione, ma un’urgenza. Se hai una sensibilità, usi la musica per raccontare». Una scrittura non per mestiere («I temi in fondo son sempre quelli»), ma per dire cose, per sfogarsi.
«È vero – precisa Bisceglia – non mi sento di usare un milione di parole, se mi bastano tre frasi. Faccio fatica ad ascoltare il rap di ora con due milioni di parole e immagini. È come se l’immagine figa che arriva dopo cannibalizzasse quella di prima e te la sei dimenticata. Qua magari ti fai un ragionamento». Siamo chiunque, ad esempio, è un mantra. Una «riflessione sul diverso: cerchi un quieto vivere, ma quando apri il file della riflessione ti senti in difficoltà. È un mix di sensi di colpa, sbagliati anche, frustrazione e volersi sentire buono e a volte violentato. O anche cercare di mettersi dalla parte dell’altro e creare empatia. La verità è che siamo fottutamente interdipendenti gli uni dagli altri. Non c’è un altro».
Nell’ultima traccia – Sì tocca a me – c’è Alina B., figlia di Alioscia. Una speranza? «Il compromesso con lei – conclude Alioscia – era quello di usare la sua voce sul disco, ma una volta sola. Era la chiusura giusta perché ora sono cazzi loro, di quelli così piccoli. Io però son sempre speranzoso. Son pessimista, ma nella pratica non son depresso. Cerco sempre di essere proattivo».