La Veneranda Biblioteca Ambrosiana ospita ‘Natura Morta’ di Jago, opera che dialoga con Caravaggio per scuotere le coscienze. L’intervista.

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Un’esplosione di bianco candido in un’atmosfera che ha il sapore della sacralità, coi suoi chiaroscuri che fanno immergere in un tempo che sembra rarefarsi. Eppure, il niveo marmo parla a noi, al presente, a ciò che sta allo stesso tempo fuori e dentro. Nulla di più concreto di un canestro marmoreo con cui l’artista Jago rappresenta una Natura Morta fatta di fucili, proiettili e pistole. La morte, solo questa, ha spazio nell’opera dello scultore contemporaneo chiamato a dialogare con un capolavoro senza tempo come La Canestra di frutta di Caravaggio.

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E se nel Merisi si riconosce ancora uno scampolo di vita, e di speranza, quando il linguaggio prenuncia solo parole di guerra, di vitale non può rimanere nulla. È questa la provocazione dello scultore, il cui lavoro vuole scuotere le coscienze attraversando idealmente i secoli, dalla pittura del Seicento all’arte contemporanea. Dall’8 maggio al 4 novembre 2025, proprio dinanzi all’opera caravaggesca, la Natura Morta propone un confronto audace che ribalta la tradizione: un cesto colmo non di frutti, ma di armi.

Jago natura morta

La Canestra di frutta, con i suoi frutti maturi che evocano la caducità della vita, incontra così un cesto di pistole, fucili e mitragliatori, simbolo di una “natura” corrotta dalla violenza. “La natura non idealizzata, eppure innocente, di Caravaggio è spunto per creare un canestro non più colmo dei frutti della terra. Bensì di sofisticati e artificiosi strumenti di morte”, afferma Mons. Alberto Rocca, direttore della Pinacoteca. L’opera di Jago, in marmo eterno, denuncia un presente dove la morte è un prodotto di consumo.

L’installazione crea, così, un confronto tra due nature morte che interrogano epoche diverse. “Cosa resta della vita quando il tempo e l’uomo la consumano?” è la domanda che unisce i due artisti. La scultura, con la sua crudezza, stimola una critica attuale, invitando a riflettere sul rifiuto, la sopraffazione e i conflitti armati. La Pinacoteca Ambrosiana, con la sua storia secolare, diventa il palcoscenico ideale per questo incontro tra tradizione e contemporaneità nato dalla riflessione sulla fragilità umana.

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Caravaggio usava i frutti per parlare del tempo che consuma; Jago, invece, punta il dito sulla violenza quotidiana. E la scelta del marmo, materiale prediletto dello scultore, amplifica il messaggio in un gesto scultoreo che omaggia la storia dell’arte ma la sfida, denunciando un mondo svuotato di senso.

L’intervista a Jago

Come nasce questo progetto con l’Ambrosiana in dialogo con un’opera celebre come quella di Caravaggio?
Il progetto è nato per caso. Avevo l’idea di realizzare quest’opera che oggi vediamo esposta in un luogo così prezioso, unico, sacro. Ne parlavo e condividevo il pensiero con Iole Siena di Arthemisia, che in quel momento era in collaborazione con l’Ambrosiana. Lei ha visto una prospettiva possibile, ha intercettato l’entusiasmo di Monsignor Rocca e del dottor Grimaldi, i quali poi sono venuti a Napoli e hanno immaginato di poter dar vita a questa associazione. Io mi sono semplicemente messo a disposizione, facendo il mio dovere di scultore.

Com’è stato dialogare con un artista così lontano nel tempo, ma che parla ancora oggi?
Caravaggio è totalmente contemporaneo. Quella che ci circonda non è una lingua morta: è ancora viva, ci parla, ha tantissimo da dirci. Il mio compito è stato entrare in questo dialogo in punta di piedi, cercando – se possibile – di portare un valore, sottolineando quella bellezza e quei messaggi che ancora oggi ci toccano. Spero di aver creato una base dignitosa su cui poggiare lo sguardo verso un tempo che ne sa sicuramente più di me. Il maestro Merisi ci ha lasciato qualcosa che continua a essere un faro per le generazioni future, un faro di speranza, perché lì c’è la vita, la possibilità della vita.

Jago
Immagine da Ufficio Stampa

Questo momento, per me, è pieno di vita. Se oggi ci impegniamo e usiamo gli strumenti della comunicazione per parlare anche di altro – invece di amplificare solo il negativo – forse, ecco, potremmo davvero fare qualcosa che vale la pena. Continuare a fare bellezza, occuparsi di bellezza e creatività, nonostante tutto.

Qualcosa che, in un mondo pieno di bruttezza, è uno spazio da difendere.
Io posso creare un’opera, un motivo d’incontro. Può piacere o meno – ed è giusto così – ma il mio compito è proteggere anche chi non la apprezza. L’opinione è sacrosanta. Però voi, che vi occupate di comunicazione, avete il potere di entrare con un click nelle tasche delle persone. I bambini, i ragazzi sono spugne: accolgono tutto. E allora il vostro ruolo è fondamentale: potete educare le nuove generazioni a guardare con una prospettiva. Voi siete la speranza.

E la scuola, la famiglia, che ruolo hanno in questo processo educativo?
Hanno un ruolo centrale. Un bambino è una spugna appunto, e il contesto in cui cresce lo definisce. La scuola, poi, è decisiva: può intercettare le inclinazioni naturali, valorizzarle. Questo è il lavoro più difficile e anche il più sottopagato del mondo. Dovremmo fare una rivoluzione per ridare dignità a questa professione. Lo dico con cognizione: ho avuto una mamma e una nonna insegnanti, sapevano cosa significava amare davvero quel mestiere. Io stesso non ho finito gli studi, sono e resterò un ignorante – ma spero di continuare a imparare. Per me, oggi, è un momento educativo. Un’idea è diventata concreta, e questo è il mio modo di imparare: trasformando pensieri in materia, e condividendoli.

Immagini 1 e 3: Jago, Natura Morta, 2025. Marmo statuario, 127x61x39 cm. Photo by Jago © JAGO, by SIAE 2025
Immagine 2: Michelangelo Merisi detto Caravaggio, Canestra di frutta, 1597-1600. Olio su tela, cm 47×61. Veneranda Biblioteca Ambrosiana, Pinacoteca – Milano ©Veneranda Biblioteca Ambrosiana / Mondadori Portfolio

Che ruolo ha l’arte in tutto questo?
L’arte mi fa riflettere su me stesso, mi aiuta a capirmi. Mi dà la possibilità di apprendere. I grandi maestri – e mi riferisco soprattutto a quelli che non ci sono più – sono sempre disponibili. Sono lì, pronti a offrire la loro esperienza. È per questo che, paradossalmente, preferisco gli artisti morti: non rifiutano l’insegnamento.

E i social media, che parte hanno nel suo lavoro e nel suo pensiero?
I social sono strumenti. Cambiano con le generazioni, certo, ma sono strumenti. Dentro questo marasma di contenuti, l’idea di conquistare il mondo è un’utopia. Però si può intercettare un pubblico attento, affezionato, capace di sostenere ciò che produci. Il passaparola vero, quello che nasce in famiglia, a tavola, è ancora il più potente. Credo si possa fare un uso sano del mezzo. Voi lo sapete: oggi è difficile distinguere tra ciò che è vero e ciò che è falso. Viviamo nell’epoca degli “informati su tutto”. Io invece sento il bisogno di sapere meno del mondo fuori, ma di conoscere meglio me stesso.

Un museo come l’Ambrosiana cosa può offrire, oggi?
Un luogo come questo restituisce un senso di contemplazione. Chi entra qui si prende del tempo per sé, si specchia nei gesti di chi ha creduto nel proprio talento e lo ha lasciato in eredità. Questa è una bellezza che supera la prova del tempo. Oggi si scorre, si scrolla… ma davanti a una tela, sei lì. Non è un supermercato. Qui ci devi tornare cento volte. Perderti in ogni pennellata. Ce ne sono tante, e ogni volta puoi scoprire qualcosa di nuovo. In un’epoca in cui andiamo sempre di corsa, fermarsi diventa un gesto rivoluzionario. Io auguro a tutti di potersi prendere questo attimo per essere presenti.

Immagini da Ufficio Stampa

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