La nostra intervista a Rancore, che ci racconta il brano di Sanremo Eden e i contrasti della sua generazione, tra mancanza di complessità e orientamento.

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Dopo la partecipazione insieme a Daniele Silvestri al 69esimo Festival di Sanremo con il brano Argentovivo, Rancore è tornato sul palco dell’Ariston – stavolta da solo – con Eden, una canzone che lo vede collaborare con Dario Faini – in arte Dardust – e che gli è valsa il premio come Miglior Testo, una vera e propria conquista per un rapper in una kermesse così storica e, a suo modo, tradizionale.

Incontriamo Rancore in un hotel sanremese durante il Festival, per farci raccontare non solo da dove nasce il brano, ma anche come si vive Sanremo da outsider.

«Io e Dario non ci conoscevamo, ma in due sessioni avevamo già creato Eden, partendo dal giro di piano. – ci dice il rapper sulla genesi del brano – Dario ama mischiare classicismo ed elettronica e mi ha dato questa produzione che già era molto avanti nel lavoro. Io ci ho scritto sopra partendo da un’idea che stava nascendo mentre producevamo la base. Ho scelto il tema dell’Eden, poi ho viaggiato nel tempo per cercare e trovare tutte le mele, da Isaac Newton a Magritte, per descrivere come ognuno di questi momenti abbia determinato un grande cambiamento nella storia dell’uomo, portando a una svolta».

Oggi il futuro e il presente combaciano e ci troviamo di nuovo di fronte a una grande scelta che può cambiare il futuro. Il tema più importante è però quello dell’unione e della divisione, dobbiamo restare uniti o dividerci? Quale parte di noi stiamo perdendo e quale dovremmo riacquisire per stare un po’ più in pace? In questo senso, il ta ta ta più che uno sparo è uno strappo.

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Classe 1989, Rancore sente molto le contraddizioni del suo tempo, tentando – artisticamente e umanamente – di superarle.

«La mia è artisticamente una generazione in cui sembra che sei costretto a fare arte – commenta – abbiamo milioni di mezzi per semplificare tutto. Siamo una generazione molto spronata non tanto ad aumentare il proprio livello creativo, ma a sentirsi artista. Per me è, in un certo senso, sbagliato. Tutti cerchiamo continuamente il consenso degli altri, ma l’arte finisce nel momento in cui stacchi il pennello dal quadro. Non è il momento finito. È bello che il rap e la musica siano così divulgati, ma c’è troppa fretta di far uscire le cose. Scrivi un brano e lo fai uscire subito, a volte non è neanche sistemato il mix. Io dico sempre a tutti i ragazzi che mi chiedono un consiglio di aspettare, perché quella canzone resterà per sempre nella loro vita, o almeno questa è la speranza che devono avere».

Credo ci sia una mancanza di orientamento generale. Il 1989 nasce, in fondo, con la rottura dei confini e con il crollo del Muro di Berlino, ma non è stato così. Io vengo dal tempo dei divorzi, dalla caduta delle Torri Gemelle, dalle guerre, dall’inizio di un nuovo mondo che ha creato contrasti tra le generazioni. La tecnologia ha aperto dei vasi di Pandora e tutto è diventato il contrario di tutto. Il livello di complessità dovrebbe essere molto più alto, mentre tentiamo di abbassarlo per far sì che le cose vengano usufruite il più in fretta possibile. La musica che porto cerca di non limitarsi nella complessità, anche se può subirne dei danni. Però mi dico sticazzi. Quando hai un motivo per fare le cose, le cose assumono molto più senso.

In quest’ottica, Rancore commenta le polemiche che hanno preceduto il Festival di Sanremo – con particolare riferimento ai testi di Junior Cally – storcendo il naso.

«Secondo me sono polemiche strumentalizzate dalla politica, non servono a risolvere i problemi, ma ad aumentarli. – dichiara senza mezzi termini – Tante cose sono state giudicate in modo superficiale, portando a dei quesiti che credevo superati da tanto tempo. Ma è una moda italiana quella di tornare ad argomenti superati dagli anni ’50. Credo serva ad aumentare la passività che abbiamo nel far scorrere tutto e nel dare la nostra opinione su ogni cosa quando non sappiamo niente. Non riusciamo neanche ad ascoltare chi abbiamo vicino, figuriamoci ad ascoltare noi stessi, che è poi il luogo più pericoloso in cui possiamo entrare».

In questo, per Rancore «l’importante è che alla fine del Festival ci sia un’evoluzione della musica italiana e che i contenuti riescano a cambiare il contenitore», indipendentemente dalla gara e dalla competizione.

Proprio sui contenuti, il rapper ha le idee molto chiare. Non servono etichette o titoli di merito, in fondo, per conoscere il mondo o se stessi. «Non ho fatto l’università, ma ho sempre amato il mistero che si nasconde dentro le cose. – ci confessa – Credo che la realtà che ci circonda sia un grande mistero e che nel momento in cui vuoi approfondire ti sveli tantissime cose, ma devi avere il coraggio di entrarci. Entrare dentro di me e dentro le cose è il più grande studio che ho fatto, dimenticandomi la scienza e le cose che mi hanno insegnato. Io attingo dalle cose piccole e semplici. La citazione è un mezzo che uso per dire cose semplici, ma ho necessità di creare delle immagini e il modo migliore è spesso usare archetipi o simboli per costruire un percorso di immagini e concetti».

Eden – dunque – è per Rancore «un labirinto di concetti e una sorta di codice, che però apre ad un gioco. La mia speranza è che questo gioco porti altre persone a trovare nuovi concetti e nuovi stimoli, anche dopo più ascolti, finché la musica non diventa uno specchio. Lo sfondo resta uguale, ma chi si specchia rende mutevole il quadro».

La cover portata sul palco insieme a La Rappresentante di Lista è invece stata scelta, in primis, per ricordare «la mia generazione. Luce di Elisa vinse Sanremo nel 2001, un anno importante sotto molti punti di vista. Io lo ricordo molto bene e si vede anche in Eden. Il secondo motivo è che il beat in 4/4 si sposa perfettamente col rap, tanto che a 13 anni ci avevo già scritto delle rime. Il testo ha uno spessore enorme e lati molto onirici ed ermetici. E poi volevo reinterpretare la canzone spostando il fuoco sulla Luna e sul mare, che guidano un marinaio smarrito. Il vento è quello che fa muovere la barca e mette in tiro le vele, mentre il ritornello è ciò che mi racconta la Luna mentre guarda la Terra. Come sarebbe un tramonto visto dalla Luna? Ve lo siete mai chiesto?».

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E sul futuro, Rancore ha in fondo le idee ancora più chiare.

«Dardust rappresenta per me un nuovo capitolo, un nuovo sound, ma anche un continuum della mia scrittura, che mi porta sempre a creare matrioske. Fondamentalmente sono in una nuova fase di scrittura, ma chi mi segue sa che non faccio dischi per motivi discografici o sanremesi. Io li faccio pensando sempre al me stesso del futuro, cerco di trattarlo bene. Per il resto, navigo a vista e lascio che sia l’ispirazione e la voglia di raccontare qualcosa a muovermi. Non posso fare previsioni, perché se le facessi comprometterei la stessa Musa. Preferisco lasciarla tranquilla, così che la rotta non si perda e il capitano sia sempre sul timone».