Per generazioni, il nome Sandokan ha avuto il potere di aprire una porta: dietro c’erano giungle lussureggianti, mari in tempesta, palazzi coloniali, tigri e pirati. Oggi quella porta si riapre. A cinquant’anni dalla storica serie Rai con Kabir Bedi, la Tigre della Malesia torna sullo schermo in una nuova produzione che racconta l’origine del mito e rimette al centro l’immaginario creato da Emilio Salgari.
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Tra scelte estetiche e stratagemmi produttivi, Sandokan è un viaggio in più tappe: parte dal Borneo dell’Ottocento, attraversa l’India e la Malesia degli anni Settanta e approda nell’Italia di oggi, tra set costruiti da zero, virtual production e un immaginario che guarda al cinema epico.
Dove è stato girato Sandokan: il nuovo viaggio tra Italia e tropici
La nuova serie su Sandokan è un’origin story. Segue l’ascesa di un pirata che vive alla giornata nel Borneo del 1841, a bordo della sua nave. Con lui il fedele Yanez e una ciurma di avventurieri provenienti da tutto il mondo. Tra arrembaggi nel mar della Cina, incursioni nel consolato britannico di Labuan e fughe nella giungla tropicale, Sandokan incrocia tre forze che cambieranno per sempre il suo destino: il popolo indigeno dei Dayak, il cacciatore di pirati James Brooke e Marianna, la Perla di Labuan, che qui non è solo interesse amoroso ma personaggio fiero, indomabile, capace di sfidare le gabbie della società vittoriana.
Per dare corpo a questo mondo, la produzione ha lavorato per anni, alternando location reali e grandi set costruiti ad hoc. L’Italia è stata la prima protagonista di questa trasformazione: tra la Calabria, gli studios di Formello e le aree verdi del Lazio – come la zona del lago di Vico – la troupe ha ricreato foreste tropicali, porti orientali e interi villaggi ispirati al sud-est asiatico. A queste ambientazioni si sono aggiunte le riprese in Thailandia e sull’isola della Réunion, vicino al Madagascar, scelte per le loro scogliere frastagliate, la giungla fitta e le baie naturali che restituivano meglio l’atmosfera selvaggia immaginata da Salgari.
Il sultanato del Brunei, i porti del sud-est asiatico, le città coloniali sono spesso nati in Italia: la scenografia ha ricreato un intero mondo esotico restando entro i confini nazionali, poi potenziato da un uso massiccio del digitale.
Il Borneo di Salgari: quando la geografia è anche immaginazione
Prima ancora dei set, però, c’è il Borneo che vive sulla pagina. Il ciclo indo-malese di Salgari nasce a fine Ottocento e si muove tra Malesia e India: Mompracem, Labuan, Sarawak, i Sundarbans, l’Assam. È una geografia reale ma filtrata dall’immaginazione: Salgari non si spinse mai oltre Brindisi, eppure costruì un mondo dettagliatissimo, alimentato da atlanti, dizionari e resoconti di viaggio.
Quel Borneo è una geografia mentale. Un luogo di libertà assoluta, covo di pirati e di resistenza contro l’impero britannico. Ma anche uno spazio ambiguo, dove la fascinazione per l’esotico si mescola alle ombre del colonialismo. La nuova serie raccoglie questa eredità e la aggiorna. Non solo avventura, ma riflessione sui temi dello sfruttamento della natura, della cancellazione delle culture indigene, del prezzo dell’identità e della libertà. Un universo narrativo che continua a essere reinterpretato da chi prova a portarlo sullo schermo.
Dove è stato girato Sandokan con Kabir Bedi
La seconda grande tappa del viaggio è la serie anni Settanta diretta da Sergio Sollima, che ha trasformato Kabir Bedi in icona globale. Anche allora la produzione partì dall’idea di girare in Borneo, ma il territorio fu giudicato troppo complicato. Si scelse quindi una traiettoria alternativa che oggi è diventata parte della leggenda.
Le riprese principali si svolsero tra India, Malesia occidentale e Thailandia. La reggia di James Brooke, per esempio, non fu cercata a Sarawak ma trovata a Trivandrum, nel Kerala. Era un palazzo in legno intagliato, sospeso tra India e Malesia, perfetto per incarnare l’ambiguità del rajah bianco. Gli esterni delle fortezze vennero ricavati dal forte di Golconda e da quello di Bhongir. La mitica Mompracem, infine, prese forma sull’isola di Kapas, un tempo davvero rifugio di pirati.
Labuan, invece, nacque da un vero e proprio collage: natura malese per le spiagge e la vegetazione, India per la parte inglese, con residenze coloniali, parchi e scene di caccia alla tigre girate a Madras (oggi Chennai), dove si trovavano anche tigri, elefanti e figuranti per i soldati della Compagnia delle Indie. Un puzzle di luoghi che al montaggio diventava un unico arcipelago immaginario.
Anche alcune sequenze d’azione furono frutto di sperimentazioni notevoli per l’epoca. Ne è un esempio il celebre combattimento tra Sandokan e la tigre. Fu costruito montando insieme un salto filmato in India e un secondo girato in studio a Londra, supervisionato dagli stessi tecnici che più tardi avrebbero lavorato a Superman.
L’Italia che diventa Borneo: scenografie e virtual production
Nella nuova serie, la sfida è simile ma la tecnologia cambia radicalmente. Il reparto scenografia guidato da Luca Merlini ha lavorato per trasformare paesaggi italiani in sud-est asiatico: il Sultanato del Brunei nasce in Toscana, la giungla si sviluppa tra Roma e l’area del lago di Vico, il porto di Labuan prende forma all’isola di Le Castella. Il resto è costruito in studio, dove le navi – compresa una sezione del Royalist lunga circa 25 metri, con polena ispirata ai coltelli malesi – sono state ricreate quasi interamente.
La chiave è la virtual production: un enorme videowall di oltre 300 metri quadrati circonda il set e proietta cieli, orizzonti, tempeste digitali. In questo modo la troupe può girare tutte le scene in mare senza mai salpare davvero, con una libertà di movimento che il mare reale non consentirebbe. La società italiana EDI – Effetti Digitali Italiani ha curato set extension, porti, arcipelaghi e la tigre in CGI, combinando modelli in scala delle navi, fotogrammetria e animazione digitale. È un cinema di pirati costruito da pirati del cinema, come ama dire la produzione.
Costumi ed ecologia: la Malesia vista dai ragazzi di oggi
Anche i costumi giocano un ruolo centrale nel ridefinire i luoghi di Sandokan. I costumisti Angelo Poretti e Monica Saracchini sono partiti da una domanda: come vedrebbero Sandokan i ragazzi di oggi? La risposta non è stata un’operazione nostalgia, ma un linguaggio visivo contemporaneo che mescola costumi tradizionali asiatici, illustrazioni ottocentesche, fumetto e grafica pop.
Ogni personaggio e ogni ambientazione sono identificati da una palette cromatica precisa e da motivi che richiamano i disegni malesi e la cultura Dayak. In parallelo, il reparto ha lavorato su un forte filone ecologista. Per il popolo di Labuan sono stati riciclati abiti e tessuti, le tribù Dayak portano addosso ornamenti fatti con tappi, plastiche di scarto e materiali recuperati. Infine, i pirati sono caratterizzati da rondelle, bulloni arrugginiti, metalli trovati. Una scelta estetica che diventa dichiarazione politica, in linea con i temi della serie sulla devastazione ambientale e lo sfruttamento delle risorse.
Fotografare un mito: luce, fumo e notti di luna
Il lavoro del direttore della fotografia Valerio Evangelista completa questo mosaico di luoghi reali e immaginati. L’obiettivo dichiarato è costruire un’esperienza sensoriale e immersiva. La luce diventa un vero linguaggio narrativo, attraversa la scena con apparente casualità. Nello stesso tempo, però, segue le emozioni dei personaggi, amplificata da chiaroscuri densi di fumo, polvere, acqua.
Dalle foreste all’interno del consolato inglese, fino alle prigioni e alle stive delle navi, ogni ambiente è concepito come una sorta di sogno febbrile, sospeso tra realismo e dimensione pittorica. Il ledwall usato per le scene in mare non è solo uno sfondo, ma una fonte luminosa che avvolge gli attori e rende il mare digitale incredibilmente tangibile. Il risultato è un respiro cinematografico che punta a un pubblico mondiale ma conserva un cuore artigianale, profondamente italiano.
Un mito che viaggia nello spazio e nel tempo
I luoghi di Sandokan conducono sempre nello stesso spazio estetico. Un territorio sospeso tra realtà e invenzione, dove il mito continua a riformarsi ad ogni nuova trasposizione. Nel Borneo di Salgari, inventato sfogliando atlanti a migliaia di chilometri di distanza. Nelle location indo-malesi degli anni Settanta, che trasformarono la serie con Kabir Bedi in un fenomeno globale. Nei set italiani, thailandesi e della Réunion della nuova produzione, dove la giungla nasce tra i boschi del Lazio e il mare arriva da un videowall.
In mezzo ci sono i temi che rendono Sandokan ancora attuale: la lotta contro il colonialismo, la difesa di popoli e foreste, la ricerca di identità, la domanda su che cosa siamo disposti a sacrificare per sentirci davvero liberi. È forse per questo che, ogni volta che torna, la Tigre della Malesia trova nuove generazioni pronte a seguirla. E che la geografia dei suoi set, da sola, racconta già una storia sul modo in cui il nostro sguardo continua a immaginare – e a reinventare – il mondo.
Foto da Ufficio Stampa