Presentato all’82ª Mostra del Cinema di Venezia e disponibile su Netflix dal 7 novembre, il nuovo adattamento di Frankenstein firmato da Guillermo del Toro non si limita solo alla rivisitazione del celebre romanzo di Mary Shelley, ma si trasforma in manifesto estetico. Un racconto visivo che trasforma il mostro in simbolo e il corpo in opera d’arte.
Con un cast d’eccezione, Oscar Isaac nel ruolo del Dottor Victor Frankenstein e Jacob Elordi nei panni della creatura insieme a Mia Goth e Christoph Waltz, Del Toro rilegge il mito con la sua firma riconoscibile: visioni gotiche, scenografie costruite come quadri, atmosfere sospese tra morte e desiderio di vita.
Frankenstein secondo Guillermo del Toro: il corpo come quadro
Nel cinema di Del Toro, il corpo assume sempre un ruolo legato a un significato e al suo significante. In questa rivisitazione ora disponibile su Netflix, la Creatura interpretata da Jacob Elordi appare alta, magra, elegante e allo stesso tempo fragile nel suo essere. Non è la classica massa deforme dei Frankenstein passati ma un’icona nuova, perturbante, erotica e delicata al tempo stesso, come se fosse ispirata all’arte statuaria neoclassica di Canova.
Ma non solo la personificazione del mostro evoca un richiamo artistico, anche gli oggetti di scena trasformano il set in un’opera Liberty costruita da elementi quali piume, tessuti elaborati, luci calde e fredde che creano una composizione pittorica, come un richiamo alle tele di Klimt o ai disegni simbolisti di fine Ottocento, trasformando ogni scena in un quadro e ogni movimento, in un gesto carico di significato visivo.
Anche la fotografia del film si rivela studiata nei minimi particolari per evocare i principi della composizione classica attraverso sezioni auree, diagonali pittoriche e equilibrio cromatico. Quello di Del Toro è un cinema che costruisce un percorso artistico attraverso un’estetica profonda, colta e sempre carica di riferimenti. L’uso del chiaroscuro ricorda i contrasti drammatici e teatrali di Caravaggio, mentre la scenografia porta alla mente i paesaggi gotici e decadenti di Caspar David Friedrich, con architetture slanciate, cieli plumbei e interni carichi di simbolismo.
Frankenstein, un mostro come opera mancata: fallimento o incompiutezza?
Il Frankenstein di Del Toro si propone, nello stile del regista, cambiando il punto di vista. In questo lungometraggio il vero fallimento non è la Creatura ma il Creatore. Il Dottor Frankenstein abbandona, o meglio, decide di distruggere il suo esperimento riuscito dopo tanto studio e sacrificio non perché mostruoso, ma perché imperfetto e incompiuto.
La Creatura diventa così un bambino nel corpo di un gigante buono che ha bisogno di essere guidata, compresa e forse, amata. È in questo scarto, tra ciò che si è e ciò che gli altri si aspettano che nasce il cambio di percezione. Un ribaltamento che parla all’arte stessa creando quella similitudine verso le tante opere che vengono rifiutate perché non aderenti all’ideale immediato di bellezza o compiutezza.
Il film si rivolge direttamente allo spettatore portando alla riflessione su chi chi è il vero mostro, un quesito che attraversa anche l’arte come metafora verso l’ossessione per l’opera compiuta e per l’effetto immediato che rischia di cancellare l’importanza del processo, dell’attesa e dell’errore.
Una riflessione si fa ancora più attuale in una società in cui la bellezza è spesso legata alla performance che deve essere rapidità, volta al consumo immediato magari immortalato in una foto fugace durante una esposizione. Frankenstein si trasforma così in una sorta di metafora sul tempo dell’arte nel presente.
L’estetica gotica del mostro in un nuovo immaginario visivo
Guillermo Del Toro porta sotto i riflettori il concetto estetico di perfezione relativa dimostrando come ciò che è sempre stato considerato perfetto ai canoni classici possa essere messo in discussione. Un punto di vista già affrontato dal regista anche in un altro suo celebre lungometraggio, Il labirinto del fauno dove anche qui il mostruoso si trasformava in una creatura che inquieta e affascina al tempo stesso, un’anomalia che diventa arte.
Il contesto dei riferimenti artistici è protagonista anche attraverso la figura di Elizabeth, interpretata da Mia Goth, che viene raffigurata in una delle scene chiave del film con un copricapo piumato che le delinea il viso, un riferimento evidente ad altre creature dell’immaginario di Del Toro ma che la espone con un contraddittorio tra il demoniaco e l’angelico. L’immagine oltre a autocitare le opere del regista richiama artisticamente i quadri preraffaelliti trasformando la ragazza in una sorta di Madonna, un elemento quasi sacro. L’incontro con il mostro è potente, lui che si riflette in lei, e viceversa nell’essere entrambi non compresi e in cerca di uno spazio nel mondo, come due opere astratte.
Frankenstein su Netflix: l’arte di fare cinema con l’arte
Frankenstein di Guillermo del Toro non è un adattamento fedele ma più una di presa di posizione verso l’imperfezione, la diversità e alla potenza evocativa dell’immagine.
È un film che si guarda come si osserva un quadro: cercando i dettagli, lasciandosi coinvolgere ma mai giudicando troppo in fretta. Perché, come accade per ogni opera d’arte, anche l’imperfezione ha qualcosa da raccontare. Del Toro si conferma ancora una volta un abile maestro nel creare un ambiente in cui spettatore e opera dialogano, come in una esposizione d’arte dove non si guarda solo il singolo, ma si entra in una visione.