Nel 2003 nelle sale italiane arrivava Opopomoz, lungometraggio d’animazione a firma Enzo D’Alò ambientato in una Napoli un po’ magica. Opopomoz – per chi non lo sapesse – era la parola magica che il protagonista Rocco doveva pronunciare per entrare nel presepe: Sano la prende in prestito per dare un titolo (e una title track) al suo album di debutto, uscito per Bomba Dischi/WEA il 14 novembre.
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Anima dei Thru Collected, Sano ci presenta queste dieci tracce che segnano il suo esordio da solista, contraddistinte da una scrittura intima e da un sound costruito insieme a Rainer Monaco (produttore di Thru Collected) e Drast (PSICOLOGI). Ce lo siamo fatti raccontare dal cantautore.
Come nasce Opopomoz e perché prende il nome del film di D’Alò?
«Quando uscì ero piccolo, lo avevo visto in cassetta. In realtà il titolo è arrivato dopo. Non essendo questo propriamente un concept album, c’erano canzoni connesse tra di loro, ma solo perché tutte parlano di cose vere, successe. Non è nato, però, prima il titolo dell’album. Quindi, a un certo punto, mi sono ritrovato a vivermi dinamiche nuove che non conoscevo, essendo anche il mio debutto discografico da solista. Dovevo, effettivamente, scegliere un titolo. Mi son detto: Ma io come lo chiamo questo disco?. Non c’era una parola che potesse sintetizzare tutto».
Quindi: Opopomoz?
«Ovviamente sono molto legato ad Opopomoz, anche semplicemente per l’estetica, per i diavoletti, per la parola così onomatopeica. Poi, in generale, i lavori di D’Alò a me piacciono, sono molto fissato con l’universo dei bambini. Ho anche scritto una canzone per lo Zecchino d’Oro, è un mondo che mi appartiene, anche perché mia mamma fa la maestra. Un giorno mi sono chiuso in camera mia e mi sono messo ad appendere fogli bianchi sui muri per prendere appunti. Mi è venuto in mente che Opopomoz è una parola magica e che questo progetto, almeno da fuori, viene vissuto un po’ come una trasformazione.
È un esordio da solista e ha un output un po’ più grande. È apparentemente pop, anche se non so mai cosa significa questa parola: pop. Però insomma, usiamola, tanto ormai è inflazionata. E quindi ho detto: Ah, Opopomoz mi piace, mi appartiene, non significa niente di preciso. E poi parla anche un po’ di Napoli, la mia città, e non fa parte del mainstream. Ho collegato un po’ tutti i punti, come se fosse una puntata de L’Eredità: queste sono le parole, qual è la parola finale?».
Faccio un passo indietro. Perché dici che soprattutto da fuori viene visto come un album di cambiamento? Tu non la vivi così?
«La trasformazione è inevitabile anche per me. È la prima volta che mi ritrovo a fare musica da solo. Verte tutto su di me, più che altro io ho l’ultima parola su tutto: è una cosa alla quale non sono proprio abituato. Al tempo si committava, ed era comodo perché c’era un’infrastruttura diversa. Ora mi sono ritrovato a dire dei sì e dei no a tante cose insieme e mi sono dovuto prendere delle responsabilità diverse. Quindi ti direi che sì, c’è un cambiamento per forza di cose.
Tuttavia, non lo vivo molto come un punto di rottura, perché alla fine le canzoni le ho sempre scritte io, parlo di cose che mi succedono o di cose che mi ispirano. Non mi sono dovuto inventare niente. Insomma, la mia formula è sempre stata mirata a fare canzoni comprensibili. In questo caso, semplicemente sono dieci mie canzoni. Magari da fuori può sembrare un progetto più solido e più improntato a una fruibilità divulgabile, più aperta, però alla fine non c’era questa intenzione. O meglio, questa intenzione c’è da sempre. Ho avuto semplicemente la possibilità di applicarla al cento per cento».
Sulle produzioni invece come hai lavorato?
«Tutte le canzoni sono state elaborate e prodotte da Drast degli Psicologi e da Rainer Monaco, che era con me nei Thru Collected. Diciamo che il 90% del merito di questa percezione delle produzioni è loro. Tutte le canzoni sono state comunque prodotte in mia presenza, alcune le ho prodotte anche solo io, però in generale c’era questo team di persone che hanno fatto percorsi diversi. Marco, per quanto ci conosciamo da dieci anni, ha fatto ad esempio un percorso con gli Psicologi molto pop, anche con risultati giganteschi.
Lui aveva un approccio diverso, anche più conscio di come funzionano le cose e di cosa serve per ottenere un certo risultato. Non in termini numerici o di successo, ma parlo di forma canzone, di tipo di suono: il suo apporto in questo senso per me è stato fondamentale. Chiaramente io e Rainer veniamo da un contesto più underground, e quindi abbiamo condito il tutto con la nostra visione delle cose».
I testi sono invece molto personali, nel tuo stile, e spunta anche il napoletano…
«La scrittura per me è un tema molto personale. Scrivo quando ho qualcosa da scrivere. Per quanto riguarda il dialetto, quando ero a metà del lavoro – quindi 5-6 mesi fa – non avevo ancora fatto una canzone in napoletano e non avevo ancora sbloccato quell’aspetto. A dirla tutta, pensavo che questo disco non dovesse includere quella parte di me. Però poi ho scritto una poesia in napoletano, Marcass a q, e ho pensato di musicarla e renderla una canzone.
Mi sono detto che fa parte di me ed è inutile, soprattutto in un disco d’esordio, precludersi la possibilità di far vedere anche questo aspetto che effettivamente mi appartiene al 100%. Da lì ho sbloccato questo discorso, ho fatto un’altra canzone in napoletano e poi ho anche integrato dei neologismi nelle canzoni. Dico delle parole in italiano che però sono napoletane: figlie del mix incestuoso tra l’italiano e il napoletano».
Ci sono stati grandi esclusi in questo album?
«Alla fine ci abbiamo lavorato un annetto. Non abbiamo avuto troppo tempo per ricrederci oppure per riformulare tutto il processo creativo. Secondo me è tanto un punto a favore quanto a sfavore, però ha senso che sia così: voglio proiettarmi verso il futuro con margini di miglioramento e poi ho creato un primo disco organico, pur con tutte le sue sbavature che lo rendono umano e percettibile. Per risponderti, non ci sono troppe canzoni escluse, forse una decina.
Ho scritto 20-30 canzoni e poi ho selezionato le 10 giuste con molta facilità. Erano quelle più urgenti in quel momento e le più complete come intenzione. C’è una canzone registrata con l’iPhone, ma doveva starci quella rispetto ad un’altra registrata nel super-studio col microfono da 10 mila euro. Volevo fare un disco che avesse un’intenzione pura e sincera, e quindi che prescindesse anche dalla qualità».
Cosa puoi dirmi invece delle grafiche?
«Ho lavorato con varie persone. Ho lavorato con Pippo Noscati, un fotografo di Salerno molto bravo. Il primo singolo, uscito a marzo, aveva come cover una foto pensata da me e realizzata da lui, con tutte le sue visioni. Per il secondo singolo c’è una grafica di Gabriele Skià, che ha fatto anche i video del primo e del secondo singolo. Per quanto riguarda il disco, la copertina e il video-corto, così come le grafiche del tour sono state curate da alcuni ragazzi di Napoli, che si chiamano SMARGIASS.
Li ho coinvolti un po’ all’ultimo, perché pensavo che fosse giusto fare entrare persone che avessero osservato da fuori tutto il processo. Che non lo avessero visto in prima persona ed erano gasate al pensiero di mettercisi. Potevano apportare qualcosa di più coerente, sempre confrontandosi con me, perché io avevo una visione chiara anche esteticamente. Il fatto che ci fosse qualcuno che non ci fosse stato dentro per tutti questi mesi, ha aiutato a far uscire una cosa effettivamente fresca e netta, che non si rifacesse per forza propriamente a quello che era successo due mesi prima e che potesse creare un’estetica e un immaginario solido e lucido».