Un progetto organico, ispirato e carico di simbologie anche estetiche: Irama racconta il nuovo album ‘Antologia della vita e della morte’.
Seduto su una poltrona color ocra, in una stanza che porta addosso i segni del tempo, Irama guarda verso terra. Accanto a lui, un serpente si avvolge lento sul pavimento di legno. È un’immagine potente, sospesa tra quiete e tensione, vita e metamorfosi. La copertina di ‘Antologia della vita e della morte’ è il biglietto da visita per accedere al mondo che l’artista racconta musicalmente nelle nuove tracce ed è, insieme, una scena fortemente simbolica.
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«La casa è diventata quasi un essere senziente – ci racconta lo stesso Irama. – Una persona che sa tutto quello che hai vissuto e ti conosce a fondo». E allora, approfondiamo ogni dettaglio, dal serpente alle pareti consunte tra frammenti di memoria e canzoni come stanze abitate dai ricordi.
Con quel serpente – da sempre simbolo dell’artista – che diventa qualcosa in più, «simbolo del dualismo tra vita e morte, luce e oscurità. Mi rappresenta, ma parla anche di ciò che siamo tutti: un equilibrio continuo tra fine e rinascita». Uno scatto, dunque, che introduce a un mondo emotivo complesso, un viaggio nella fragilità, nella perdita e nella ricerca di sé.
L’ispirazione: vita, letteratura e cantautorato
Il titolo ‘Antologia della vita e della morte’ ha un tono letterario, classico, che rimanda alle radici della nostra lingua. Come nasce l’idea di costruire un disco attorno a questo titolo? E da dove arriva il titolo stesso?
In verità prima è nato il disco, e solo dopo il titolo. ‘Antologia della vita e della morte’ deriva in parte dalla mia ammirazione per De André, penso in particolare al suo album tratto dall’‘Antologia di Spoon River. Dall’altra parte, però, è stata anche una conseguenza logica. Il disco è un insieme di racconti – racconti di vita e di morte – e questo dualismo è eterno, fa parte dell’essere umano da sempre.
Se pensi alla Bhagavad Gita, allo Yin e Yang, o a qualsiasi simbolo che rappresenti la vita dell’essere, tutto parla di equilibrio: tra luce e oscurità, bene e male, nascita e fine.
Nel mio disco convivono brani che raccontano la vita e altri che ne esplorano le sfumature più oscure, quelle della morte.
A proposito di morte: è un tema legato anche alla capacità di dire addio, di lasciare andare. Tu hai imparato a farlo? E a cosa hai detto addio?
Mi è capitato spesso, purtroppo, di dover dire addio come succede a tutti. Ma non ho mai davvero imparato a farlo. Forse è una questione d’età, alla soglia dei trent’anni, o forse è qualcosa di più personale… Ma non sono mai stato pronto a lasciar andare. Faccio molta fatica, anche questo disco lo dimostra. È stato un processo lungo, ci ho messo anni per chiuderlo.
Però è stato bello, in questi anni, continuare a portare in giro i concerti, vedere le persone partecipare, condividere. Dopo tre anni in tour, mi sembrava giusto lasciare andare anche questo ciclo e aprire, in un certo senso, la mia casa al pubblico. E non solo in senso metaforico: ho voluto davvero far entrare le persone dentro la mia casa, nel mio mondo. Ma no, non ho ancora imparato a dire addio.

Ascoltando l’album emerge un tema centrale: il richiamo al passato, al ricordo, alla nostalgia – forse ancora più forte che nei tuoi dischi precedenti. Come entra questo tema del passato nel concept della “casa”? E ci sono artisti, dischi o canzoni che ti hanno ispirato in questo senso?
Il concetto di ricordo secondo me si sposa perfettamente con quello di casa. La casa è un contenitore di memorie, un luogo dove i ricordi restano sospesi, dove continuano a vivere. Pensiamo alla casa d’infanzia: basta entrarci e, attraverso gli odori, i quadri, i suoni, si rivede la propria vita. Quindi sì, la casa è un luogo intimo ma anche perfetto per custodire, curare e coltivare i ricordi.
Per quanto riguarda gli artisti del passato, è difficile citarne uno solo – sono stati davvero tanti. La musica, in fondo, è sempre fatta di memoria. Un artista che mi ha colpito molto è Stromae, soprattutto quando canta del padre: riesce a farlo con un’intensità incredibile. Non è stata un’ispirazione diretta per questo disco, ma sicuramente lo è stata per La genesi del tuo colore. Quel brano nasce un po’ da lì, da quell’idea. Mi ha colpito anche La ballata dell’amore cieco di De André: entrambi sono esempi di come si possa raccontare qualcosa di triste in una forma musicale vivace, quasi da ballare.
La Genesi è in realtà un testo molto triste, ma è sempre stato percepito come una canzone felice. Questa ambiguità mi ha sempre affascinato. È come Papaoutai: ti viene da ballare, ma parla di un’assenza profonda, di qualcosa di tragico. Quando l’ho sentita la prima volta, mi ha colpito così tanto che ho voluto provare a scrivere anch’io una canzone in quel modo.
Hai detto che la lavorazione del disco è stata lunga e intensa. Come hai vissuto questo tempo, anche mentre eri in tour?
Devo dire che è stato complicato. Per me è difficile scrivere quando sei in tour, perché sei costantemente immerso in un flusso di cose che accadono. Mettiamola così: ho 29 anni, quindi sono ancora giovane – quel “2” davanti al “9” durerà ancora per poco (sorride, ndr) – ma da quando ero bambino sono dentro a questo processo. Non mi sono mai fermato. Sono sempre stato in tour, e ormai, tra poco, saranno dieci anni che giro.
Questa cosa, devo dirti la verità, ti aliena un po’, perché ti toglie lo spazio per vivere la quotidianità, per vivere cose normali. Non che mi lamenti, per carità, però certe dinamiche ti portano via un po’ di spazio, di respiro. E la quotidianità è importante. Per ritrovarla, a volte, devi arrivare quasi a toccare il fondo – come scrivo anche in alcune canzoni. È una sorta di benzina per il serbatoio di un artista. A volte si tende a forzarla, quella sensazione, e non bisognerebbe farlo… ma è qualcosa che succede.
In questo periodo ho cercato di mantenere il più possibile il contatto con la realtà: di viaggiare, di scappare, anche solo per pochi giorni. Magari prendo e vado all’estero per tre giorni, passo una notte intera in un pub, o giro senza meta. Cercavo di vivere in modo diverso. Da una parte avevo la vita del tour, sempre in movimento, e dall’altra questa vita parallela, più libera, fatta di fughe e di esperienze con intenzioni completamente diverse.

Questa doppia dimensione mi ha permesso di scrivere, di avere benzina, di raccontare storie. Ma anche di studiare, perché scrivere un disco non è solo ispirazione: c’è tutto il lavoro di chiamare i musicisti, decidere chi coinvolgere, studiare i generi, capire come farlo. E tutto questo ha bisogno di tempo.
Un tempo che il mercato discografico spesso nega.
Sì, viviamo in un mercato dove un anno sembra valere sette. Prendersi tre anni per un disco sembra una follia, mentre un tempo – pensa a Guccini, per esempio – magari dopo un album era normale fermarsi, respirare. È tutto diventato un controsenso: da una parte tutto corre più veloce, dall’altra si perde la profondità. E questo è un peccato, perché per fare musica bisogna studiare, nutrirsi, arricchirsi.
Io l’ho fatto. Ci ho messo più tempo proprio per questo motivo – e anche perché volevo che fosse perfetto. Non lo sarà mai, ovviamente, la perfezione è un’utopia. Forse sono un folle, o forse è solo una scusa: sono insicuro, ho paura di deludere chi mi vuole bene e chi ascolta le mie canzoni. E allora, a un certo punto, ho deciso di aprire le porte, di far entrare le persone nella mia “casa” e raccontare questo disco così com’è.
La casa: simboli e dettagli estetici
Torniamo al concept della “casa”, a livello estetico nell’artwork. Quali dettagli non potevano mancare?
La casa, a un certo punto, è diventata quasi un essere senziente. Mi piaceva questa idea: come se fosse una persona che sa tutto quello che hai vissuto, che ti conosce a fondo. Durante il concerto, per esempio, ho voluto cambiare approccio. Invece di fare il classico finale con la presentazione dei musicisti, ho deciso di introdurli all’inizio, come se fossero gli ospiti della casa. Ognuno di loro rappresentava una parte della mia vita, e raccontare piccoli aneddoti su di loro mi sembrava il modo più sincero per far entrare il pubblico nella mia dimensione privata.

Il concetto di casa ruotava proprio attorno a questo: aprire le porte e far entrare gli altri nella mia vita, nei miei ricordi. Anche all’Arena ho invitato persone che hanno fatto parte del mio percorso, per cantare insieme brani legati a momenti precisi della mia storia. Non per celebrare qualcosa, ma per vivere quei ricordi e congelarli nel tempo, condividendoli con chi era lì.
E la copertina?
La copertina rappresenta l’interno di quella casa. È come entrare nel suo cuore, nel luogo dove vivono i ricordi, le memorie, le storie. Ogni canzone è un frammento di questa antologia, un tassello che abita quella casa. A livello di artwork, c’è il serpente – un simbolo che mi accompagna da tempo. Mi affascina perché incarna il dualismo tra vita e morte, che è anche il tema del disco.
In molte culture, come quella egizia, il serpente non rappresenta solo il male: è anche il simbolo del bene. Pensa al mito di Horus e Maat – quando il sole sorge e “si bagna di sangue”, significa che la luce ha vinto. Quel contrasto mi ha sempre colpito, è lo stesso principio dello Yin e dello Yang, un equilibrio eterno.

Per me il serpente ha un valore identitario e simbolico: è la mia rappresentazione visiva del dualismo vita-morte, distruzione-rinascita. Anche se magari nessuno ci penserà quando vedrà la copertina, mi piaceva dargli questo senso profondo.
Nella copertina ci sono anche delle foto d’infanzia, giusto?
Sì. Le foto che ho inserito sono molto personali, dirette: sono proprio mie. Per esempio, sul retro del disco, c’è una foto di me bambino. Mi sembrava giusto chiudere così, in modo semplice e sincero, riportando tutto all’origine – al punto da cui tutto è iniziato.
E dal punto di vista emotivo, com’è stato lasciar andare questo disco dopo così tanto tempo?
È andata. (sorride) Ormai non posso più ritirarlo indietro. Ti dico la verità: a livello musicale non ho mai avuto imbarazzo o freni. Quello che mi ha sempre messo più in difficoltà è la parte umana, quella più esposta. Non tanto l’artisticità in sé, ma la comunicazione, la condivisione. Mostrare il mio lato più personale in pubblico è qualcosa che mi viene difficile… per indole, per educazione, per carattere.
L’artista, secondo me, ha sempre due parti: quella musicale e quella umana. Ecco, nella parte umana io faccio più fatica. Mostrare il privato, lasciare entrare davvero gli altri, non è mai stato facile per me. È sicuramente un mio limite, ma sto cercando di superarlo, anche con questo disco.
Immagini da Ufficio Stampa