Il nuovo album di Annalisa non è solo musica: è un percorso carico di simbologie e immagini che diventano anche una mostra fotografica.
‘Ma io sono fuoco’ è il nuovo album di Annalisa disponibile da venerdì 10 ottobre per Warner Music Italy. Un progetto che dimostra quanto, oggi, un disco non sia più solo musica. O almeno, possa ambire a muoversi tra linguaggio musicale e progetto estetico, se guidato da un’ispirazione che permetta una costruzione simbolica complessa. Del resto, già l’annuncio social della stessa artista aveva fatto intuire come il lavoro sarebbe stato anche visivamente molto evocativo.
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“Quando è tutto da rifare /io mi posso trasformare /pensi che mi faccia male / ma io sono fuoco”, aveva scritto Scarrone sui social. Esplicitando anche il riferimento alla poetica di Borges. Al centro del progetto ci sono, infatti, il fuoco e il tempo come elementi trasformativi, metamorfici. Complementari e ciclici, in costante dialogo.
Da una parte, il fuoco è energia vitale, rabbia, passione, cambiamento; ma è anche il gesto che cambia la materia e la luce. Dall’altra, il tempo, dimensione in cui questa fiamma brucia, il ritmo della vita che consuma e rigenera. Jorge Luis Borges a tale proposito scriveva che «il tempo è un fiume che mi trascina, ma io sono quel fiume; è una tigre che mi divora, ma io sono quella tigre; è un fuoco che mi consuma, ma io sono quel fuoco».
È proprio da qui che nasce la copertina dell’album, in cui Annalisa appare avvolta in un abito-armatura lucente, immersa in un ambiente sospeso. Una rappresentazione simbolica della metamorfosi, della capacità di reagire, trasformare, sopravvivere in maniera attiva.
Il fuoco, il fiume e la tigre
La copertina è piena di elementi simbolici e visivamente densa: puoi raccontarcela?
In questo album abbiamo toccato tanti temi: c’è la trasformazione, c’è il fuoco e c’è soprattutto la voglia di reagire. Tutto sta in quel MA all’inizio del titolo: una volta chiuso il cerchio, mi sono accorta che questo era il centro del disco. E mi sono ritrovata in un passo di Borges, che parla della circolarità del tempo.
Il tempo è un fiume che mi trascina,
ma sono io quel fiume;
è un tigre che mi divora,
ma sono io quella tigre;
è un fuoco che mi consuma,
ma sono io quel fuoco.
Ecco, ho voluto mettere il fiume, la tigre e il fuoco dentro quella copertina. Io sono lì, immersa in questi tre simboli, con un abito che ricorda un’armatura poetica, non aggressiva.

È un’armatura simbolica che rappresenta questo rapporto con il tempo che passa, che non è una linea ma è fatto di tanti cicli che continuano a ripetersi. E noi con loro. Non siamo passivi ma attivi: la nostra percezione e il nostro voler correre, a volte, lo fanno passare molto più veloce rispetto a come passava quando, per esempio, eravamo bambini e ci sembrava che un anno fosse infinito.
Dalla copertina all’ultimo brano, in cui quegli elementi ritornano.
Il fuoco è la trasformazione. È la capacità di reagire alle cose che succedono. Quel MA del titolo serve proprio a mettere l’attenzione sulla reazione. Qualcosa accade, può essere bello o no, ma io posso provare a trasformarlo in un’opportunità. Anche se qualcosa non è andato come volevo – e magari mi ha fatto male – posso reagire, posso trasformarla in qualcosa di mio, posso anche trasformarmi, senza perdermi.
Senza rinnegare mai la mia essenza, ma andando avanti dentro questo processo continuo di cose che accadono, belle, brutte, o via di mezzo. Penso che alla fine l’unico modo per conservarsi sia proprio questo: riuscire a trasformarsi insieme alle cose che cambiano.
C’è una certa dimensione quasi onirica, sospesa, ma al tempo stesso concreta. È un’immagine costruita o è nata così, spontaneamente?
È nata del tutto in modo istintivo. Non c’è nulla di costruito. Le canzoni sono arrivate da sole, senza pensarci troppo. Di solito, nei viaggi o in momenti diversi, mi appunto delle frasi, dei temi, cose che voglio raccontare. Quando entro in studio apro questo mucchio di appunti e, insieme al team, decidiamo lì per lì che direzione prendere. Tutto nasce da ciò che senti quel giorno.
Per me la musica nasce solo se ne hai bisogno. Le canzoni nascono perché ne hai bisogno. Noi facciamo pop, siamo fortunatissimi, dei privilegiati, ma cerchiamo di restituire qualcosa di semplice, che arrivi lontano. Credo che basarsi sull’istinto sia il modo più vero. Il “cerchio” l’ho chiuso dopo, quando ormai c’erano quasi tutte le canzoni. Forse mancava ancora qualcosa, ma a quel punto ho capito qual era il senso, il filo rosso.
In quale momento ti sei sentita ‘fuoco’ o ‘tigre’? Quando hai dovuto tirare fuori gli artigli?
Io faccio molta fatica a tirare fuori gli artigli, in realtà. Cerco di farlo a modo mio, con il mio aplomb, perché alla fine ho capito che sono fatta così. Ognuno può dirmi quello che vuole, ma io ho bisogno del mio ritmo, anche in questo. Faccio fatica a mettere gli altri a disagio, non mi piace. A volte esagero, certo, perché capita che non si possa evitare, ma in generale tendo a trattenere.
Quello che mi succede spesso, infatti, è il contrario: invece di reagire subito, assorbo tutto. Poi ci rifletto, lo tengo dentro, oppure ne parlo attraverso le canzoni. Scrivere, per me, è un modo per risolvere me stessa: metto dentro le fragilità e provo a migliorare. E quando arriva il momento di tirare fuori le unghie… spesso è già passato (sorride). Allora cosa succede? Le tiro fuori nelle canzoni.
Le metamorfosi
Nel disco precedente avevi mostrato diverse sfaccettature di te, anche attraverso i visual e i look dei singoli. Adesso invece affermi ‘Ma io sono fuoco’. Cosa rappresenta per te questa nuova fase? È un personaggio, o più di uno?
Forse non è un unico personaggio, ma tanti. Perché se parliamo di trasformazione, e di come i sentimenti possano incanalarsi e cambiare forma, allora qui dentro ci sono diversi personaggi. Ci vorrà tempo per farli uscire tutti, ma il senso dell’album è proprio questo.
Ad esempio, il primo brano (Dipende) è una canzone arrabbiata, e da lì si parte: dalla rabbia che poi si trasforma. Si trasforma in malinconia in Piazza San Marco, e quella malinconia a un certo punto diventa ironia, magari in Maschio, o in Emanuela, o in Esibizionista. Poi ritorna la rabbia, ma in un modo diverso – più distaccato, quasi prendendosi in giro – come in Avvelenata. E alla fine, magari, hai solo bisogno di un’amica a cui confidare tutte queste emozioni diverse che ti hanno attraversato.

Alcuni passaggi nei vari testi hanno una vena provocatoria con la quale affronti anche il tema del ruolo delle donne, soprattutto nel rapporto con gli uomini. È così?
Io parlo di cose che sono successe a me, di cose successe ad altri… e qualcuna me la sono anche inventata (sorride). A volte è proprio un miscuglio di tutto: una canzone raramente è riferita a un episodio preciso o a una sola delle cose che ho detto prima. Molto spesso è un mix di sensazioni provate di recente, di esperienze di anni fa, di storie che magari non appartengono a me ma a una mia amica. Oppure situazioni in cui mi sono trovata, e qualcuna l’ho anche un po’ romanzata.
Però sì, hai colto nel segno: ci tenevo a parlare del giudizio e del fatto che è così presente nelle nostre vite. Nelle vite di tutti, ma nelle donne in particolare. Volevo parlarne, come volevo parlare anche di quella tendenza che abbiamo oggi a considerare qualcuno totalmente sbagliato basandoci su una piccolissima cosa. E poi due minuti dopo elevarlo a santo e perfetto perché magari è successo qualcos’altro. È un po’ il frutto dei tempi, credo. E queste tensioni per me erano un modo per parlarne, per mettere l’accento con ironia sul fatto che manca tanta empatia.
La cornice di Piazza San Marco
Nel disco collabori con Marco Mengoni in Piazza San Marco, il cui videoclip è stato girato proprio a Venezia. Come è nata la scelta del bianco e nero, e com’è stato lavorare in un contesto così carico di storia e bellezza?
Per me doveva sembrare un film. Fin dall’inizio avevo in mente Marco Mengoni per quella canzone ma l’ho tenuta da parte perché volevo prima avere più chiaro l’intero progetto. Quando poi ci siamo incontrati in studio, tutto è stato naturale, facilissimo. Una sintonia rara. Il bianco e nero serviva a restituire quel senso di malinconia e romanticismo che c’è nel brano.
Piazza San Marco, poi, ha una personalità tutta sua: è lo sfondo bellissimo e malinconico di questa storia, di questo stato d’animo che condivido con l’unica persona che poi alla fine resta. E che è colui che mi ascolta e con cui mi posso confidare. Ecco che anche questa è una cosa importante nel disco, forse è il suo senso ultimo: parlare dei rapporti che restano, quelli che resistono al tempo, nonostante tutto.
Oltre a Mengoni, hai collaborato con Paolo Santo, ma c’è una donna con cui ti piacerebbe collaborare? E secondo te, perché in Italia è così raro vedere due donne collaborare insieme?
Ce ne sono tante, davvero tante, e anche molto diverse tra loro, di tutte le generazioni. In realtà non penso che sia difficile in sé, penso che la vera difficoltà sia riuscire a incastrare i progetti. Questo sì. Tornando al discorso della velocità di prima: facciamo tutti mille cose, senza fermarci mai, e non è facile trovare il momento giusto, la canzone giusta, il modo giusto perché quella collaborazione abbia davvero il peso che merita.
Spesso mi è capitato di ipotizzare con delle colleghe “dobbiamo fare un pezzo insieme!”, però poi scatta subito la pressione. E quindi, nel mio caso, in questo album non c’è una donna perché voglio che quando accadrà sia una cosa che butta giù i muri (sorride). Mi piacerebbe anche sperimentare con artiste più giovani, magari lontanissime da me come mondo, almeno in apparenza. Però serve la canzone giusta, il momento giusto, e anche che l’altra persona possa dedicare a quel brano lo spazio che merita. A volte io vorrei far uscire un singolo e l’altra artista non può, o viceversa. È complicato, ma non perché non vogliamo farlo: è perché vogliamo farlo bene.
L’artwork in mostra
Per celebrare l’uscita del disco, Annalisa porta il suo universo visivo anche fuori dallo spazio musicale, con una serie di firmacopie speciali accompagnati dall’esposizione di fotografie. Non un semplice instore, dunque, ma un’esperienza. Art Gallery & Instore sarà un piccolo tour d’arte, con le seguenti tappe:
- 10 ottobre – Milano, BOSSSPACE Via dei Bossi, 2 ORE 17:00
- 11 ottobre – Bologna, GALLIERA E20 Via Galliera, 18/C ORE 14:00
- 12 ottobre – Torino, CAMERA via delle Rosine 18 ORE 11:00
- 13 ottobre – Roma, HORTI SALLUSTIANI Piazza Sallustio 21 ORE 16:00
- 14 ottobre – Napoli, MADE IN CLOISTER Piazza Enrico De Nicola, 48 ORE 14:00
- 15 ottobre – Bari, GALLERIA BAART– via Calefati, 35 ORE 14:00.
Immagini da Ufficio Stampa