Presentato nello Spazio Voce in Triennale Milano, ‘Manifesto’ è un viaggio artistico nella black music e nell’hip hop culture. Senza compromessi.

Si intitola ‘Manifesto’ il nuovo, ambizioso ed elegante, progetto di Shablo che nelle sue diciassette tracce esplora le radici della black music e dell’hip hop culture. Registrato in uno studio a San Gimignano, l’album guarda, infatti, ben oltre i confini e la contingenza. E lo fa per indagare le sonorità che hanno plasmato l’artista – soul, jazz, R&B e hip hop – arricchite da influenze afro-latin e trap’n’B.
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Suoni ed estetica diventano, nel complesso, coefficienti che costruiscono, o forse ricostruiscono, un immaginario trasversale con un linguaggio artistico viscerale e autentico. Dalle note alle parole, dai muri della street culture americana alla tecnologia sofisticata di oggi. Shablo definisce una traiettoria, la sua, che si presenta con un’identità personalissima e diventa una vera e propria “scommessa culturale”. Ce la racconta proprio l’artista all’interno dello Spazio Voce in Triennale Milano, dove ha scelto per presentare il suo lavoro per lanciare un messaggio pienamente multidisciplinare.
Partirei proprio dal titolo, ‘Manifesto’.
Questo album è il mio manifesto e, allo stesso tempo, è il mio manifestare. Mi piaceva questo gioco di parole, perché avevo voglia di concretizzare qualcosa, di esprimere la mia visione musicale e manifestarla in un progetto concreto, che si potesse appunto ascoltare. Che rimanesse. È un po’ una dichiarazione di intenti, di quella che è la musica che mi ha cresciuto e che vorrei riproporre.
Credo, anzi, che per tanti giovani che non hanno mai sentito o approcciato questo genere, possa anche risultare qualcosa di nuovo, di fresco. La musica è ciclica, tutto ritorna, e quindi possiamo essere nel momento giusto per riproporre delle cose e farle risultare nuove. Perché poi, alla fine, non si inventa mai niente… tutto ritorna.

In qualche modo quelle radici ci raccontano quello che sentiamo oggi e consideriamo contemporaneo, attuale?
Certo, sì. Come ci dicevamo prima, in realtà, soprattutto oggigiorno, è tutto un mix, una fusione di tante cose. E quindi è difficile che non abbiamo già ascoltato o sentito tutto. Inventare qualcosa di nuovo, anche solo dei generi nuovi, è quasi impossibile. Credo che nella musica, quello che è successo negli ultimi cento anni, ormai sia lì. Solo mischiando, trovando nuove combinazioni, si può andare avanti all’infinito, ecco.
Perché è il momento giusto per questo lavoro, secondo te?
Se non avessi sentito che era il momento giusto non l’avrei fatto. Ed era il momento giusto perché credo che in questo momento, nella musica, ci sia un po’ un’omologazione diffusa. Suona un po’ tutta uguale, soprattutto quella in classifica, quella mainstream. E per un personaggio come me che viene spesso associato al mainstream – perché vi ho lavorato, e sicuramente contribuito a creare quello che è oggi il mercato contemporaneo – valeva la pena presentare un progetto che in realtà non lo è per niente… questa cosa mi incuriosiva. Volevo proporre qualcosa di diverso, che arrivasse da me e non magari da un gruppo emergente o da una cosa di nicchia. Credo che creare questo contrasto sia forte e che, in qualche modo, possa un po’ riequilibrare.
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È un po’ una scommessa artistica?
Sì, ma direi più una scommessa culturale che artistica. Perché dal punto di vista artistico è una scommessa per me già vinta nel senso che l’album l’ho fatto, mi sono divertito, quindi per me quello era l’obiettivo. Culturalmente, invece, è una scommessa: non mi interessa tanto la classifica in sé, ma che faccia riflettere. Far riflettere chi fa musica come me, per esempio, che si senta un po’ più libero di esprimersi, di sperimentare. Questo si è un po’ perso rispetto al passato. Negli anni ’60, ’70, ’80 ma anche ’90, c’era una grande voglia di sperimentazione nella musica.
Oggi, invece, sembra che ci sia un grande freno a mano. Da parte degli artisti sembra che bisogna sempre fare qualcosa con un obiettivo preciso, ovvero arrivare da qualche parte. Ma in realtà non bisogna arrivare da nessuna parte. Bisogna proprio rimanere qua, e cercare di divertirsi facendo musica. E bisogna tornare un po’ alle origini.
A proposito del ‘qui e ora’, ci accogli in un ambiente che ha nel suo DNA cultura, arte, design. Come mai questa scelta?
Era il posto giusto per un incontro di questo tipo e sono molto contento di aver avuto la possibilità di farlo qui. Spazio Voce ha questo impianto di design, ma allo stesso tempo con un suono incredibile, pazzesco. Sarebbe bello averne uno del genere anche a casa, per ascoltare i dischi… ecco, bisognerebbe tornare all’epoca dell’hi-fi. Non per forza con impianti così grandi, ma negli anni ’60-’70 c’era una grande cultura del suono che si era diffusa anche nelle case.
Tutti avevamo un angolino dedicato all’ascolto della musica, con molta attenzione alla qualità del suono. Anche questa cosa, oggi, un po’ si è persa: i dispositivi sono sempre più piccoli, si ascolta la musica dai telefonini, con le cuffie… è qualcosa a cui bisognerebbe ritornare, perché comunque la vibrazione del suono – certi tipi di bassi, di frequenze – aiutano anche la percezione stessa della musica.
E con le arti, che rapporto hai?
D’amore, ovviamente. Le vedo come un’unica famiglia. Semplicemente, ognuna ha un senso preferito attraverso cui viene recepita: alcune si vedono, altre si ascoltano. Ma fondamentalmente, alla base, sono tutti mezzi espressivi diversi per arrivare alla stessa cosa: la profondità dell’essere umano. E quindi sono ugualmente importanti.


Come hai lavorato dall’artwork del disco all’immaginario visivo di ‘Manifesto’?
Abbiamo collaborato con dei creativi che ci piacciono molto, Luca Ricci e Andrea Colombi, che ha seguito soprattutto la direzione artistica generale. Andrea ha realizzato anche il videoclip de La mia parola, e da lì ho deciso di collaborare con lui per tutto il disco. Anche in questo caso, ho lasciato molta libertà d’espressione. A me piace molto collaborare con persone che hanno delle visioni forti, e lasciare che si esprimano. Hanno proposto delle idee che mi sono piaciute subito.
All’interno del vinile, dell’artwork, ci sono anche delle radiografie degli strumenti; non è una grafica: siamo andati davvero a fare delle radiografie con i vari macchinari. Abbiamo fatto le lastre di strumenti come il sassofono, la chitarra, l’MPC (che è il campionatore tipico dell’hip hop).Quindi c’è stata una vera e propria ricerca legata allo strumento, ma anche una grande cura per la fotografia. Ci siamo davvero divertiti.
E se avessi potuto coinvolgere un artista anche del passato, a chi avresti affidato la copertina?
Eh, questa è una bella domanda… ce ne sono tantissimi, in realtà anche perché il disco, dal punto di vista visivo, si ispira a tante epoche diverse. Da un lato è molto minimale, da un altro lato è molto organico, molto ricco. Forse ti proporrei Basquiat perché lui sicuramente rappresenta la cultura pop ma allo stesso tempo è estremamente visionario. Quindi sì, direi che potrebbe essere il nome giusto. Anche se, ovviamente, ce ne sarebbero molti altri…

Alla vigilia di Sanremo avevi preannunciato che sarebbe iniziata una nuova storia. Cosa ti auguri per questa avventura e per i compagni di viaggio che ti accompagnano nell’album?
Beh, per questa nuova fase mi auguro innanzitutto che ci sia un approccio d’ascolto aperto.
Che ci venga data una possibilità anche da parte di chi, in genere, non ascolta questo tipo di musica, o magari non la conosce affatto. Mi piacerebbe stimolare un ascolto differente, incuriosire anche tanti ragazzi che magari sono abituati a sentire altro. Mi piacerebbe, insomma, aprire una porta nuova. Allo stesso tempo, vorrei arrivare anche alla mia generazione. La stessa che forse oggi non si sente tanto rappresentata nell’urban contemporaneo, ma che è cresciuta ascoltando un certo tipo di rap e di black music. Credo che siano in tanti, oggi, a desiderare qualcosa di diverso, di alternativo rispetto a quello che il mainstream propone.
Agli artisti che mi hanno accompagnato auguro semplicemente di continuare nel proprio percorso. Joshua è un artista nuovo, che ha tanto da dire. In questo progetto si è davvero messo in gioco, è entrato molto nel mio mondo pur avendone uno tutto suo. Quindi il suo prossimo disco andrà sicuramente in un’altra direzione, e gli auguro un grande successo. Sono contentissimo del ritorno di Tormento che per me sta vivendo una seconda giovinezza, ha un’energia incredibile. Spero che possa proseguire così, e sicuramente lo farà. Stiamo già lavorando al suo disco solista, quindi anche lui andrà avanti. Guè, poi, è inarrestabile, va avanti su tantissimi fronti. E a Mimi auguro davvero di trovare la sua identità. È una ragazza giovanissima, ha ancora tanto da esplorare — ma ha una voce che, secondo me, è tra le più belle in Italia.
Shablo porterà dal vivo ‘Manifesto’ nello Street Jazz Tour, partito il 3 luglio da Perugia per proseguire a Locorotondo (2 agosto) e a Roma (8 agosto). Ultima tappa annunciata, infine, ilm 12 novembre al Teatro Arcimboldi di Milano.
Immagini da Ufficio Stampa