Dalle lattine Campbell al volto di Marilyn Monroe: Andy Warhol saccheggia la cultura pop elevando i modelli del consumismo a icone della Pop Art negli Anni ’60.

L’arte non è mai stata un gioco pulito. E se è stato lo stesso Picasso a mettere nero su bianco che “i bravi artisti copiano, i grandi artisti rubano”, beh, non resta che credergli. E come moderni detectives cercare gli indizi che confermano la tesi. Non è difficile trovarli nel lavoro di Andy Warhol che, negli Anni ’60, letteralmente saccheggia la cultura di massa e la scaraventa sulle tele. Lattine di zuppa Campbell, Marilyn Monroe, Coca-Cola: non sono più solo prodotti o volti, ma bottini di un crimine artistico geniale.

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Warhol, infatti, non crea dal nulla: ruba, moltiplica, trasforma. Prende il linguaggio del consumismo – quello delle pubblicità patinate e dei sogni usa e getta – e lo eleva a icona, trasformando il banale in eterno. È un ladro senza scrupoli, un pirata della Pop Art che ci costringe a guardare nello specchio la nostra ossessione per il superfluo.

Le Campbell’s Soup Cans: il crimine della ripetizione

New York, 1962. Warhol entra in scena con le Campbell’s Soup Cans. Trentadue tele, una per ogni gusto della zuppa in scatola più famosa d’America, allineate come in un supermercato. Non c’è poesia, non c’è dramma: solo lattine, dipinte con una freddezza meccanica che urla serialità. Il rosso e il bianco del logo, il metallo lucido, la scritta stampata: tutto è copiato, quasi fotografico.

Andy Warhol Soup
Foto Shutterstock

Ma non è una copia innocente. Warhol ruba un oggetto banale, da pochi centesimi di dollaro, e lo mette in una galleria, sotto i riflettori. È un furto sfacciato che prende un simbolo del consumo di massa e lo spoglia della sua funzione, facendolo diventare arte.

La tecnica è quella della serigrafia, un processo industriale che imita la produzione in serie. Non c’è il tocco dell’artista né pennello, ma una macchina che stampa, proprio come le fabbriche che sfornano lattine.

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Il crimine sta tutto qui, nella provocazione intellettuale con cui Warhol si appropria di qualcosa spostando il piano del suo linguaggio. Trasforma un prodotto usa e getta in un’icona immobile, costringendoci a chiederci perché una zuppa valga un quadro. Le Campbell’s Soup Cans, esposte per la prima volta alla Ferus Gallery di Los Angeles, scandalizzano e affascinano. È il bottino di un ladro che non ha paura di essere scoperto: il consumismo è il vero colpevole, e Warhol lo mette sotto accusa esponendolo al mondo.

Marilyn Monroe: da diva a reliquia

E che dire di Marilyn? Agosto 1962: la diva muore, e Warhol non perde tempo. Con Marilyn Diptych, trasforma il suo volto in un trofeo senza tempo. La foto promozionale del film Niagara – un’immagine patinata, sorridente, perfetta – diventa una serigrafia su cinquanta pannelli. Da un lato, colori accesi: rosa shocking, giallo limone, blu elettrico. Dall’altro, un bianco e nero sbiadito, quasi spettrale. Marilyn non è più una donna: è un prodotto, un logo, una lattina con un altro nome. Warhol ruba la sua immagine dalla cultura popolare, la moltiplica fino all’ossessione e la svuota di vita, lasciandola sospesa tra mito e cadavere.

Il crimine qui è doppio. Prima, saccheggia l’icona di Hollywood, un simbolo che appartiene ai tabloid e ai cinema, non alle gallerie. Poi, la distrugge: la ripetizione ossessiva cancella l’umanità di Marilyn, trasformandola in un oggetto di consumo infinito. Quei colori sgargianti sono un grido pop, ma il bianco e nero racconta la morte, il declino di una star divorata dalla fama. Conservata oggi alla Tate Modern, Marilyn Diptych è il frutto di un furto che non chiede scusa: Warhol prende una diva e la fa sua, elevandola a reliquia di un’era che idolatra l’apparenza.

Andy Warhol
Foto Shutterstock

Un ladro nella Factory

Chiamarlo “crimine artistico” non è un’esagerazione. Warhol non si ispira alla cultura di massa: la depreda. La sua Factory, leggendario studio newyorkese, è la base operativa per questa rapina continuata. Qui, tra assistenti e macchine da stampa, l’artista-replicatore trasforma il quotidiano in eterno con opere che nascono da foto rubate, loghi copiati, immagini che già esistono. E il furto è il punto cruciale, cercato, voluto e perpetrato.

Warhol non vuole creare: vuole riflettere un mondo che si specchia nei cartelloni pubblicitari e nelle riviste. Tutto diventa preda, tutto diventa arte. Una serie di Art Crimes in cui l’arma fumante è la serigrafia, che riproduce all’infinito, come una catena di montaggio. In un gesto che sfida l’idea stessa di artista e che porta il crimine nella sua intenzione primaria per un gioco pericoloso che Warhol riesce a vincere, trasformando il kitsch in un linguaggio che parla ancora oggi.

Andy Warhol
Foto Shutterstock

Perché questo crimine cambia tutto. La Pop Art di Warhol, infatti, non è stata solo un movimento ma una rivoluzione che ha abbattuto i muri tra alto e basso, tra arte e pubblicità, tra unicità e replicabilità. Non a caso, le sue opere hanno influenzato generazioni, da Basquiat ai graffiti di strada. È un ladro che non nasconde le mani sporche anzi mostra a tutti il suo bottino e ci sfida a giudicarlo.

Ascolta il podcast Art Crimes Dialogues

Immagini Shutterstock / Ufficio Stampa

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